versione scritta e servita alle ore 5 del 6 luglio 2019
per il concorso "Turno di Notte
“Erano due, e un attimo dopo tre.
Ma all'occhiata successiva, giusto il tempo di abbassare lo sguardo, non c’erano più”.
Ma all'occhiata successiva, giusto il tempo di abbassare lo sguardo, non c’erano più”.
“E perché?”
“Non lo so. Non era la domanda più importante, in quel momento. Avevo una
strana sensazione”.
“Preoccupazione? Inquietudine? Paura?”.
“No. Direi sollievo. Di più…felicità. Gioia”.
Come ci ero arrivato, mi chiederete?
“È una lunga storia”.
“Adalgisa era la più veloce, ma anche
la più bella, e tutte le pattuglie la fermavano”.
Queste erano alcune frasi che qua e
là avevo letto all'interno di un piccolo quaderno giallo trovato
nella cantina dei nonni.
“Alessandro, andiamo a cenare che il
nonno sai che non vuole si faccia tardi”.
“Ti ho già chiamato tre volte…” Mi
disse ancora la mamma richiamandomi all'ordine.
“E non prendere in casa altri
fumetti…” continuò, mi piacevano i vecchi Tex del nonno.
Sembrava mi avesse letto nel
pensiero, dicendomelo.
Lasciai il vecchio quaderno, molto a
malincuore, dove lo avevo trovato.
Cosa ci sarà scritto, chi lo avrà
scritto, dove, quando… molte domande mi correvano per la mente mentre mia madre
mi stava dicendo qualcosa…
“Come hai detto mammina?” cercando di
essere servizievole.
“Passa il parmigiano al nonno che te l’ha
chiesto da mezz'ora” mi rispose un po’ alterata.
“Su dai, lascialo respirare un po’,
sto povero bambino, che è stato così bravo a scuola” intervenne, con mia somma
gioia, la nonna.
La mamma sintonizzò lo sguardo su “poi
facciamo i conti dopo”.
Ma i conti dopo non li facemmo,
almeno quella sera.
Mi aspettavano gli amici al campetto
di calcio per una nuova mitica partita, e la fuga immediata dopo cena impedì
alla mamma di fare conti.
Il mattino dopo, tornai in cantina a
rovistare. La cantina dei nonni era una miniera di materiale da scoprire, o di
roba da buttare, diceva la mamma.
Che poi in parte aveva anche ragione,
ma a dieci anni tutto quello che era più vecchio di me, sembrava mitico, come
provenisse da un remoto passato che nascondeva misteriosi segreti.
Quel quaderno era molto più vecchio
di me. Si capiva dagli angoli consumati della copertina. Dal tema raffigurato
nella prima pagina. Dall’aroma che emanava, qualcuno avrebbe detto puzza, di
polvere, umida e stantia.
Cominciai a leggere.
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“È una lunga storia”.
La mattina in cui mi catturarono era una bella mattina di gennaio, di
quelle belle fredde, di quelle che la neve in collina arriva ai primi piani, di
quelle che si starebbe meglio in una casa con il camino acceso, avendo la legna
da bruciare.
Nel 1944 ormai di legna non ne era rimasta molta. Troppi inverni di
ristrettezze e razionamenti ci avevano portati al disastro finale che si
prospettava.
A noi renitenti alla leva non restava che la fuga nei boschi delle nostre
colline. La pena era la fucilazione e tanto valeva fare qualcosa per cercare di
liberarci.
La repubblica, perché poi chiamarla repubblica, di Salò e la linea
Gotica, avevano congelato tutto il nord dell’Italia nell'attesa sfibrante di
essere liberato.
A vent'anni non avevamo mezze misure, e fare il partigiano era meglio che
fare il repubblichino. Certo non tutti la pensavano così.
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Mi fermai pensando a quello che
leggevo. Di cosa stava parlando il quaderno? Chi erano questi partigiani?
Andai a chiedere alla mamma, che
prima si lamentò del fatto che la storia a scuola non si fa più, poi che non
aveva tempo e infine mi girò verso mio padre, che era al lavoro fino a sera…
Per questo l’unica era andare su
internet e cercare.
Peccato che si trovasse di tutto, chi
ne parlava bene e chi male. Chi parlava bene dei partigiani e chi ne parlava
male.
Parteggiavo per i partigiani, ma forse
era perché il protagonista misterioso lo era?
Tornai alla lettura del quaderno.
La storia si dilungava su diverse
azioni compiute dal protagonista.
Era un diario di azioni pericolose,
di nemici e amici morti.
Fino a che anche il mio “amico” fu
catturato.
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E un giorno mi catturarono
Dopo un sommario processo, e dopo avermi picchiato per fare vedere che
erano dei duri, senza che avessi detto niente, il capitano dei repubblichini mi
condannò a morte.
Il mio gruppo aveva attaccato due camion di tedeschi e fascisti che erano
appena stati a rastrellare un paesino vicino picchiando e facendo quello che
volevano.
Inferiori di numero, dopo averli mitragliati e averne uccisi qualcuno e
finito l’effetto sorpresa, eravamo dovuti scappare in fretta in tutte le
direzioni.
Purtroppo, alcuni di noi erano stati catturati.
Quella mattina del gennaio del 1944, ero davanti a un quartetto d’italiani
vestiti di nero, magari con qualche strappo ai vestiti, che ormai eravamo alla
fine della storia.
In tre mi puntavano contro i loro moschetti. Il quarto, poco
più anziano ordinava.
Al primo sparo, due moschetti scoppiarono mentre il terzo fallì il
bersaglio.
Non sentii neanche il sibilo sfiorarmi. Se volevano spaventarmi, con quei
due scoppi, a loro insaputa lo avevano fatto.
Dopo una serie di bestemmie che pronunciarono in coro, pur diverse tra
loro, che tanto erano già destinati all'inferno, andarono a prendere altri
moschetti che avevano dentro la baracca lì a fianco.
Mi venne quasi da ridere, ma vista la situazione, cercai di stare serio.
“E perché?”
“Non lo so. Non era la domanda più importante, in quel momento. Avevo una
strana sensazione”.
“Preoccupazione? Inquietudine? Paura?”.
“No. Direi sollievo. Di più…felicità. Gioia”.
Sapete quella sensazione che avete in cui siete certi che il prossimo numero
che estrarranno vi garantirà di fare tombola?
Quella gioia.
Si rimisero in fila, due che erano ancora tutti neri dell’esplosione
avvenuta prima che non so neanche se ci vedessero bene, con i nuovi fucili, assieme
al “cecchino” di prima.
Che poi non è che dovessi lamentarmi della mancata organizzazione, del
resto era sempre stata un po’ così anche in tempi migliori, non potevano certo
arrivare tutti i treni in ritardo neanche allora.
“Pronti, attenti, via…” ci fu una grossa esplosione e non riuscirono a
fare altri spari.
Uno scomparve disintegrato, gli altri volarono via, “Erano due, e un
attimo dopo tre. Ma all'occhiata successiva, giusto il tempo di abbassare lo
sguardo, non c’erano più”.
Anch'io caddi indietro spinto dallo spostamento d’aria, quasi illeso, a
parte una ferita a una gamba e un’altra a un braccio.
Uno del plotone di esecuzione, andando indietro doveva aver premuto un
qualche ordigno che era rimasto inesploso fino a quella mattina.
Non era rimasto molto dei quattro ragazzi che volevano fare il bene
dell’Italia.
Un po’ mi dispiaceva comunque, per com'erano arrivati a pensare che
quella fosse la strada giusta da percorrere.
Adalgisa arrivò per prima con la sua bicicletta pensando che fosse oramai
successo l’irreparabile.
Subito dietro di lei arrivarono gli altri compagni, armati e decisi a
liberarmi.
“Adalgisa era la più veloce, ma anche la più bella, e tutte le pattuglie
la fermavano”.
Lo diceva sempre il nostro capitano. È perfetta per distrarre le
pattuglie. La perquisiscono ogni volta inutilmente mentre altre passano senza
farsi notare e portano ordini.
“Non è niente di grave, non ti preoccupare” le dissi.
Aveva uno sguardo preoccupato ma felice nel medesimo momento.
“Devo dirti una cosa Antonio” Antonio ero io.
“Che succede d’altro” le dissi preoccupato.
“Aspettiamo un bambino e lo voglio chiamare Licinio”.
“Licinio?”
“Ma come ti viene in mente di chiamarlo Licinio?”
Le risposi, come se non fossi sorpreso, scherzando sul nome che in realtà
piaceva anche a me.
“Brutto… coso… che non sei altro, sono incinta e adesso devi fare il tuo
dovere, e il nome lo scelgo io”.
Disse abbracciandomi e baciandomi facendomi anche provare un gran male al
braccio ferito con la stretta.
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Licinio!
Ma, è il nome del nonno…
Quello che vuole sempre cenare alle
18:30.
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“È una lunga storia”.
Mentre eravamo abbracciati Ada ed io, e assieme ai miei compagni festeggiavano
lo scampato pericolo, sentimmo arrivare un camion da dietro la curva che dava
nella cava dove eravamo.
I camion li avevano solo i tedeschi, se trovavano carburante per farli
viaggiare.
E, infatti, non facemmo in tempo a scappare che il camion arrivò.
La sparatoria che ne scaturì vide la morte di metà dei miei compagni e la
cattura degli altri.
Ne uccidemmo molti anche noi, ma la consolazione era molto magra.
Persi di vista Ada.
Fummo deportati in un campo di concentramento dopo un viaggio durato
giorni su un carro bestiame.
Il campo era in Polonia
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Il bisnonno continua descrivendo
situazioni che non possono essere accadute. Persone lasciate morire di stenti,
la caccia ai topi per nutrirsi, forni in cui erano bruciati i cadaveri, camere
in cui erano uccise persone con gas…
Non possono essere successe queste
cose.
Il solito internet mi dovrebbe fornire
maggiori informazioni. Ma anche questa volta trovo di tutto, anche chi dice che
queste cose non sono mai successe.
Perché il bisnonno dovrebbe mentire
nel suo diario?
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Finalmente tornammo a casa. L’Italia aveva perso la guerra. Il fascismo
era stato sconfitto. I treni continuavano come prima a fare come potevano.
Ritrovai Adalgisa. Era riuscita a scappare e non l’avevano catturata. Era
davvero veloce in bicicletta. Il mio Licinio mi aspettava con lei.
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Andai da mamma per farle vedere il
quaderno che avevo ritrovato in cantina in mezzo ai tanti fumetti del nonno.
“Mamma, guarda cosa ho trovato in
cantina”.
La mamma stava per sgridarmi, ma si
fermò quando vide la copertina del quaderno.
Lo prese e lo accarezzò, come se
avesse ritrovato un vecchio amico.
“Va bene, Alessandro, adesso parliamo
dei bisnonni Antonio e Adalgisa.
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