sabato 17 marzo 2018

Adelina

Ero davanti alla Rocca di Castel San Pietro Terme, un po’ uno dei simboli del comune, o almeno così me lo aveva venduta un anziano signore, dopo pochi minuti in cui mi ero fermata a valutare il lavoro che avrei dovuto affrontare a breve.
L’umarell, in anticipo su tutti, era già presente prima ancora che iniziassero i lavori. Complimenti. Avrei avuto molti occhi addosso, durante questo restauro.
“Ricordo quando da bambino ci giocavamo dentro simulando un assalto al castello” pronunciò in un dialetto che capivo bene.
“E poi la più bella dava il bacio al suo re…”. 
Lo guardavo parlare mentre ammirava la torre. Il suo sguardo era perso nel ricordo della bella ragazza che, forse, le aveva regalato un bacio, oppure no, ma mi piaceva pensare che gli fosse andata bene.
La rocca medioevale era lì che aspettava da molti anni. Dall’aspetto appariva ancor più vecchia e abbandonata da com’era ricoperta di sterpi e di rovi.
E proprio a me sarebbe toccato metterci mano, da restauratrice.
Una torre medioevale è sempre affascinante, a parer mio. Non sai mai cosa ci puoi trovare.
Di lì a una settimana il cantiere era insediato. Una bella recinzione, con le graziose reti arancioni a fori grandi, aiutava i diversi umarell che si presentavano per verificare i lavori.
Anche l’amico iniziale tornò a farsi vedere. Si chiamava Gino. Gli offrii un caffè perché mi era simpatico.
E poi comunque avevo poco da fare all’inizio. Erano in azione robusti giardinieri che dovevano liberare la struttura da tutta la giungla di piante che ricoprivano la struttura in muratura.
Mentre cercavamo l’attenzione della barista, intenta a scrivere qualcosa sul cellulare, ci mettemmo a parlare del più e del meno, almeno così sembrava all’inizio.
“Deve sapere che in quella torre ci siamo anche nascosti durante la guerra” Mi parlava in un italiano lento con rispetto della mia condizione di non-parlante il dialetto.
“A causa dei tedeschi?” domandai con una richiesta, in effetti, scontata.
Non ci fece caso.
“No, a causa degli italiani, degli italiani fascisti”.
Fece una pausa mentre finalmente ordinavo i caffè.
La confusione al bar era notevole e gli chiesi se voleva sedersi. Gli avrei portato il caffè.
Mi andò ad aspettare al tavolino più nascosto e riservato. Con quaranta anni in meno, avrei pensato che ci stesse provando.
“Con alcuni di loro avevamo giocato nella torre, da bambini”. 
“Ma la principessa non li aveva accontentati” rise malinconico. 
Ero contenta che fosse stato lui il destinatario del bacio.
“Arturo si sarebbe ricordato del torto…”
Ci interruppe uno dei giardinieri che arrivò tutto trafelato al bar.
“Signora…deve venire subito al cantiere…”
“Che cosa è successo?” mentre mi alzavo e andavo via dimenticando anche di pagare.
Guardai il mio amico che era rimasto con le parole sulla punta della lingua, anche se lo sguardo era triste e sconsolato.
Andammo al cantiere. Gli umarell, con il loro sesto senso da cantiere, si erano accorti che qualcosa non andava, o forse qualcuno sapeva cosa aspettarsi?
Gli operai, dopo aver diradato l’ingresso della rocca, avevano iniziato ad addentrarsi fino a trovare un’acacia molto sviluppata, che si era insinuata tra i mattoni della struttura.
Per toglierla “abbiamo dovuto tirare e questo ha provocato un piccolo crollo del muro” mi disse il capo giardiniere.
“Dietro abbiamo trovato questo”. E mi mostrò uno scheletro con ancora addosso brandelli di vestiti. Un uomo, vista la stazza, con vestiti neri.
Mi girai indietro come sentendone la presenza e vidi che dietro le reti arancioni c’era Gino che mi fissava. Vicino a lui un amico, se possibile, ancora più vecchio e altri due di dietro…
Sembravano un gruppo affiatato di un qualche club. 
Guardandoli meglio me li cominciai a immaginare con tanti anni di meno.
Quando erano poco più che adolescenti, che poi allora ad avere sedici anni si era già uomini. 
“Signora, che facciamo, dobbiamo avvisare qualcuno?”
Farfugliai qualcosa…c’era da avvisare i Carabinieri, fermare il cantiere e non sapevo neanche io cos’altro fare.
Soprattutto volevo parlare con Gino e i suoi amici.
Presi tempo.
“Adesso andate tutti a casa, per il momento il cantiere si ferma”.
Gli operai andarono via e chiusero l’accesso al cantiere.
Io sapevo di dover andare dalle forze dell’ordine ma qualcosa mi diceva di non farlo.
Gino mi aspettava con tutta la sua compagnia.
Compagnia “Amici della torre” si chiamava allora.
Anche sul finire della guerra si facevano chiamare così. Poco più che ragazzini avevano cominciato quasi per scherzo a fare i “partigiani”.
In realtà solo piccole azioni di disturbo, quasi delle ragazzate, sennonché una volta successe che mettendo un filo di acciaio teso tra due alberi, mozzarono la testa a un tedesco che arrivava in motocicletta. 
Il problema era che dietro il decapitato stava scortando un’auto con un generale del comando tedesco accompagnato da un gerarca fascista di Bologna.
Trovarsi con la testa in braccio, non piacque al tedesco che ordinò un immediato rastrellamento per trovare dieci italiani da fucilare.
E diede molto impulso ai fascisti del luogo di poter fare quello che volevano, semmai avessero avuto qualche indugio prima.
E qualcuno si ricordò del bacio mancato alla vecchia torre.
“Trascinarono la nostra principessa alla torre perché Arturo voleva il bacio che non aveva avuto” mi raccontò Gino.
Noi intanto eravamo scappati in campagna a Mordano, da un amico di mio padre.
“Ci raccontarono che Adelina urlava che non voleva e alla fine qualcuno chiamò il prete che si prese pure le botte poi, ma riuscì a far scappare Adelina”.
“Quando ne fui informato, tornai facendo in maniera che lo sapesse Arturo”.
“Mi aspettava, insieme con altri tre, alla torre”. 
“Neanche io andai solo, gli altri che vedi ancora adesso insieme con me, erano nascosti”.
“Adelina e tutto il paese sapevano”.
“I fascisti facevano finta di niente, erano contenti che i loro giovani agissero in quella maniera”.
“Insomma venimmo alle mani, e nella lotta Arturo cadde sbattendo la testa. Morto”.
“I suoi amici si presero una gran paura e scapparono via”.
“Noi rimanemmo lì, interdetti su cosa fare”.
“La torre era già allora non molto curata, e ci venne l’idea di far in maniera che il cadavere rimanesse nascosto per sempre”.
“Gli costruimmo intorno una bara di mattoni, sigillando tutto e sperando in Dio”.
“Dio o il caso il giorno dopo ci aiutò.  Un errato bombardamento, fece cadere delle bombe intorno alla torre facendone crollare una parte. Una bomba rimase inesplosa davanti all’ingresso vietandone il passaggio a chiunque”.
“Passarono i giorni e le settimane, poi arrivarono i polacchi che liberarono Castello”.
“E tra le tante questioni che avevano i fascisti, tra riciclarsi e liberarsi dei fardelli del ventennio, la faccenda della morte di Arturo fu dimenticata”.
Facemmo una lunga pausa.
La barista ci venne a chiedere cosa volessimo.
Non la considerammo.
“Adelina...?” chiesi io.
“Dopo aver vissuto assieme tanti anni, adesso riposa al cimitero di Castello”.
Mi guardavano tutti. Pendevano dalle mie labbra. Speravano in quello che non è sperabile.
Da una persona sensata come mi reputavo.
“Ok, siamo stati sfortunati con questo cantiere” dissi.
“Abbiamo trovato una bomba inesplosa nel cantiere e nessuno può entrarvi” continuai senza pensarci.
Gino e gli altri mi abbracciarono tra lo stupore della cameriera inorridita.
“E stanotte tutti al cantiere che dobbiamo togliere ‘la bomba’”.

Nessun commento:

Posta un commento