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domenica 27 luglio 2025

Turno di Notte 2025 - Ragazze

versione iniziata alle 22 del 26 luglio e servita alle ore 3 del 27 luglio 2025
per il concorso "Turno di Notte"

Ragazze – Stefano Samorì

DA UN INCIPIT DI CARLO LUCARELLI
Ecco l'incipit del XVI concorso Turno di Notte 2025:
Come fai a dire "e l'ultima":
l'ultima volta, le ultime parole, l'ultima qualunque cosa?
La prima sì, prima non c'era, appartiene al passato e quello lo conosci,
ma l'ultima riguarda il futuro, e quello chissà. Anche a giurarlo, a gridarlo,
con decisione e forza, spietata, ostinata, disparata, l'ultima, l'ultima, l'ultima.
Ma sarà vero?

Quel mattino di maggio poteva certamente nascere migliore di come si palesò all’edicolante che come solito era arrivato di buon mattino alla propria attività. Erano finite le levatacce delle fredde mattine invernali e i primi tepori dell’estate stavano manifestandosi. Purtroppo qualcosa quella mattina non sarebbe andato come si aspettava. Davanti all’edicola trovò il corpo di una giovane donna, che pareva dormire come era già successo quando si era trovato un poveraccio puzzolente, che aveva cercato riparo sotto al tendone dell’attività. Ma la giovane donna non respirava e mentre le girava attorno sotto ai suoi piedi sentiva uno strano appiccichio vischioso.

Il commissario di polizia arrivò appena possibile. Il caso del killer delle ragazze era il suo. Intanto era ormai giorno fatto. Nel frattempo si era formato un capannello di persone curiose di capire o curiose a prescindere, molti erano clienti dell’edicola passati ad acquistare il giornale con le ultime notizie di stampa e passati all’ultima notizia in diretta.

Dopo poco arrivarono i primi giornalisti armati di telecamere e microfoni per la succulenta diretta mattutina. Intervistarono il giornalaio chiedendogli cosa aveva provato nel trovarsi di fronte a questa povera ragazza certamente vittima della società e del sistema. Finalmente arrivarono sufficienti poliziotti per poter transennare, anche solo con il nastro bianco e rosso, la zona, e cercare inutilmente di allontanare gli umarell verso i cantieri.

Infine arrivò il medico legale che assieme al commissario non poté che constatare che la ragazza era un’altra vittima del “killer delle ragazze”, come era stato battezzato l’assassino.


Che soddisfazione che la televisione trasmetta il video della diretta del ritrovamento della mia vittima. Lo sarebbe ancora di più se avessero capito il perché lo faccio. Posso così vedere l’amico commissario mentre parla con un'altra persona, sarà il medico legale di turno, che non sa cosa fare e si guarda attorno sperando di vedermi. Brancolano nel buio e non hanno nessuna speranza di trovarmi. Sarebbe meglio che abbassassi il volume, in fondo non dicono niente che abbia un senso neanche gli esperti nello studio, parlano, parlano, devono riempire il tempo, fino ad arrivare a ipotizzare assurde teorie su “complotti dei poteri forti”.

Mi piacerebbe entrare nella diretta e rivelare i motivi delle loro “assurde morti”, c’è anche un numero verde da chiamare, certo sarebbe proprio da stupidi e credono che lo sia perché mi invitano a comporre il numero. Ma ecco che suona il telefono, senza limiti al trash, fanno passare tutto, più è assurdo e più vende. Sento parlare una voce maschile, prima un po’ titubante, poi visto che tutti stanno zitti e aspettano, più sicura di sé, che afferma di essere lui l’assassino. Questa affermazione mi induce in un sorriso, e farà sollazzare tutti, anche sviarli, in attesa della prossima vittima.

Mettono in comunicazione il commissario, che naturalmente non sa di essere in diretta nazionale, vedo che risponde al telefono, per cui tutti sentiamo che gli chiede di che calibro è la pistola. Il tipo al telefono ritorna a balbettare, poi non si sente più niente, e infine arriva con un urlo liberatorio con un numero 38 special. Risposta sbagliata, vorrei dire al tipo.

Il commissario chiude la comunicazione bruscamente con il tipo che rimane in diretta nazionale, ma avendo sentito il clic pensa di essere da solo e parte con una serie di bestemmie contro internet e Wikipedia. Anche in studio non hanno coraggio di lasciare aperta la comunicazione. Tutto molto comico, non avevo considerato questo lato del mio agire. Spengo la televisione, devo studiare come procedere con la prossima candidata.

Dopo una settimana al commissario arriva una nuova telefonata, sta facendo colazione ma lascia tutto sul bancone del bar. Come paventava sarebbe successo, sembra che abbiano trovato un’altra vittima. In fondo sperava si sarebbe fermato, ad essere fortunati il killer avrebbe potuto avere avuto un incidente stradale. Ormai gli sono tutti contro, questo dannato killer delle ragazze, tutte giovani e avvenanti, ha colpito l’opinione pubblica, ma non sa che pesci pigliare visto che, a parte le caratteristiche fisiche, niente sembra collegare le vittime.


La trappola è innescata. Il mio nuovo profilo su Tinder è veramente strafigo. Adesso con AI è sempre più facile generare immagini di persone bellissime. Concludo il profilo con frasi tenere da cioccolatini e come per le altre volte non avrò che da scegliere la prossima vittima.

La sera successiva Elena si è preparata e le pare di essere perfetta. Tacco alto, gonna corta certo il fisico non le manca. Vuole fare una bella impressione sul tipo che ha conosciuto su Tinder, molto bello, curato, affascinante e non vede l’ora di incontrarlo. Si devono vedere in via Tal di Tali, per poi andare in un esclusivo ristorante a sorpresa, prenotato, da vero signore, per loro due. Ha solo un cruccio, nel profilo ha indicato che è sposata, lo fa sempre per non avere problemi se non le piace chi incontra, così che non essendo libera ha una scusa per andarsene e sparire, a maggior ragione perché sembra che le donne libere non siano ricercate su Tinder. E solo un dubbio, certo, e si vuole comportare come al solito, ma questa persona pare davvero speciale e quando arriva in via Tal dei Tali e lo vede, pur da lontano, pur in penombra, e lo vede così bello con un mazzo di rose per lei, decide di tornare un attimo sui suoi passi, cambiare lo stato sul social e scrivere un nuovo messaggio rivelandogli che è libera e single come lui, così salvandosi da morte certa.

Nel frattempo non riesce a vedere che il tipo con le rose viene raggiunto da una donna, per poi andare via assieme. Il killer, già pronto, vicino alla via dell’incontro, legge il messaggio e tutto il suo piano va in fumo, a queste condizioni non può più agire e se ne deve andare, senza più neppure rispondere a Elena, ormai rivelatasi migliore di quello che sembrasse.


Dopo il fallimento del progetto Elena, il killer comincia a nutrire dei dubbi sul proprio operato, su quella che ritiene una missione per purificare il mondo. Vaga un po' per le vie cittadine finché passando vicino a una chiesa, decide di entrarci cercando un prete per confessarsi e chiedere, nel segreto del confessionale, un parere sulla missione che ha intrapreso. Il prete cerca di capire di cosa stia parlando, riguardo al ravvedere le donne dal circuire gli uomini portandoli al peccato. Altro non si sente di dire. Ma tanto basta al prete che dice di non preoccuparsi, perché il giudizio e l’eventuale espiazione delle colpe spettano a Dio onnipotente e non agli uomini. Cara Federica, così mi sembra hai detto di chiamarti, puoi andare in pace e recitare tre Ave Maria.


Federica esce dalla chiesa in evidente imbarazzo su quello che pensava fosse il suo compito nella vita. Devo dar retta al prete e smetterla, o comunque proseguire? Mentre rimugina sul futuro della sua vita, nota una coppia che passeggia davanti a lei, lungo la medesima strada. Sembrano toccarsi quasi per caso, in piccoli momenti pare che le loro dita si sfiorino, e solo nelle zone in ombra dai lampioni, si prendono per mano. Qualcosa l’ha colpita, forse l’andatura particolare dell’uomo. Arrivano a un portone, Federica si ferma per non raggiungerli e si siede in una panchina al buio nel giardino di fronte. Intanto i due si guardano attorno un po’ furtivi, si avvicinano al portone e sotto la volta, ancora più in ombra, si danno un bacio veloce sulle labbra. Pur lontana li vede sorridere complici. Lui inserisce la chiave, apre l’anta e appena prima di entrare l’attira a se e la bacia più a lungo. Lei si discosta veloce, fa dei gesti come a dire, che fai, ma poi sorride entusiasta, lo saluta felice e se ne va.


Mentre Federica sta fissando la giovane donna che va via, non si avvede che le si è avvicinato un uomo che le chiede se abbia bisogno di aiuto per entrare, e se suo marito già rientrato che avrebbe bisogno di chiedergli della pulizia delle scale del condominio, a suo parere, non eseguite ad arte.

Federica lo guarda e in maniera pacata gli conferma di averlo appena visto entrare.

Non ha più dubbi, non può fermarsi, Dio capirà se colpirà un’ultima volta.

giovedì 14 luglio 2022

Turno di Notte 2022 - Mountain Bike

versione iniziata alle 22 del 9 luglio e servita alle ore 3 del 10 luglio 2022
per il concorso "Turno di Notte"

Mountain Bike – Stefano Samorì

DA UN INCIPIT DI CARLO LUCARELLI
Non è facile raccontare una storia meravigliosa.
Anche perché non è detto che la meraviglia scaturisca soltanto dalle cose belle.
Ma bisogna farlo, perché ci sono cose che potranno anche essere incredibili e fantastiche, piene di bellezza o di orrore, di commozione e dolcezza, così meravigliose da troncare il fiato nella bocca spalancata, ma se nessuno le conosce è come se non fossero mai esistite.
Però non è facile raccontarle.
Da dove cominciare?
Ecco, in questo caso, per una volta tanto, forse è necessario partire dalla fine.

Mi si prospettava un’altra sera passata litigando con mia moglie appena rientrato in casa. Il lavoro mi faceva fare tardi ma lei pensava che avessi un’altra con la scusa del lavoro.
Non sapevo più come giustificarmi, il lavoro nella nuova azienda si era rivelato più impegnativo del previsto. L’esigenza di mettermi in pari con gli altri mi portava a fare tardi per studiare i progetti che non conoscevo ancora. Ma questo non piaceva a mia moglie, soprattutto dopo che aveva visto una collega, molto giovane e molto vistosa a sentir lei, uscire poco prima di me una sera che era venuta a controllare se ero davvero in ufficio. Casuale certo, nella struttura eravamo in centinaia di impiegati, ma difficile da far comprendere a qualcuno preso dalla gelosia.

Il giorno dopo, mentre presi una via diversa per evitare un incidente, notai una mountain bike completamente dipinta di bianco appesa a un cartello di fianco alla strada. Passavo da quella strada ogni tanto ma la bicicletta agghindata in quella maniera non l’avevo mai vista.
Cominciai a deviare in quella direzione, pur allungando il percorso verso casa, pensando inconsciamente che passando avrei capito il significato di quella...”cosa”.
Parlandone in giro venne poi fuori che in quella posizione doveva essere stato investito qualcuno in bicicletta, con esiti per lui fatali.
Qualcuno, la moglie, non sapevo ancora chi, aveva poi deciso di fargli onore o qualcosa del genere dipingendo la bicicletta di bianco, e appendendola al cartello stradale più vicino.
Ormai erano mesi che la bici era presente e nessuno l’aveva tolta da quel trespolo senza nome.
Neanche la Polizia Municipale, con evidenza, si era sentita di far rispettare il codice della strada tenendo pulita la segnaletica.

Intanto i mesi passavano. Mia moglie continuava ad accusarmi di essere un porco, ma non avendo prove, e non potevano essercene, non mi lasciava. 
Nel frattempo avevo fatto delle ricerche e trovato articoli di giornali online che spiegavano l’incidente. Ma niente d’altro, fino a che un giorno trovai la bicicletta per terra, sdraiata, abbandonata.
Ripassando al ritorno e trovandola ancora in quella posizione decisi di fermarmi per fare qualcosa. Che cosa poi non lo sapevo ancora, ma qualcosa dovevo fare, anche io ero solito allenarmi in bicicletta per le stesse strade e fin dal principio ero stato naturalmente solidale con questa persona che sarei potuto essere io in un’altra possibile direzione del tempo.
Per la prima volta vedevo la bicicletta da vicino, quasi con paura mi rendevo conto che un dovere mi imponeva di rimetterla al suo posto, come se mi trovassi in un cimitero di fronte a una lapide danneggiata a cui potevo e dovevo por rimedio.
Stranamente poteva sembrare tranciato il fil di ferro che era stato utilizzato per fissarla, come se qualcuno l’avesse di proposito abbattuta, direi quasi sfregiata per spregio, ma non aveva senso, non poteva essere stato che il tempo trascorso e la ruggine.
In qualche maniera, con il filo rimanente, la riuscii a metterla almeno appoggiata in piedi, ma certo non sarebbe durata come sistemazione. Sarei dovuto tornare per sistemarla meglio.

Il giorno successivo mi premunii di fil di ferro e tenaglie e al ritorno dal lavoro misi al suo posto la bicicletta. Mentre stavo sistemando qualcuno passando mi suonò con il clacson. Lo presi come un plauso al lavoro fatto.

L’indomani non riuscii ad andare al lavoro perché mia moglie, in una crisi d’ira e di gelosia, mi aveva lanciato un piatto causandomi un taglio in fronte.

Quando il giorno successivo tornai al lavoro, trovai la bicicletta nuovamente a terra. Stavolta non poteva essere stata l’usura. Mi fermai contromano per controllare trovando tagliato il filo di ferro e la bicicletta spostata verso il centro della strada, come per farla schiacciare. La recuperai per cercare di rimetterla a posto, e mentre ero intento a capire come fare un clacson mi fece sobbalzare. L’auto che aveva suonato frenò con tutto l’impeto e il rumore che poteva concedergli il modello. Mi voltai per capire che diavolo stesse succedendo trovandomi di fronte una donna che stava scendendo dall’auto lasciata in mezzo alla strada.
Sbraitava di lasciar stare la bicicletta di quel maledetto di suo marito. Mi si avvicinò fino a cercare di strapparmela di mano, cosa che non accettai.
Visto che non riusciva si buttò a terra piangendo sconsolata, con le mani comunque ben ferme su una ruota della bicicletta mentre io tenevo le mani sull’altra ruota. Mi cominciavo però a sentire strano con quella donna, che forse aveva più diritto di me su quella lapide laica. Non capivo perché la moglie avesse detto quello che aveva detto sul marito.
Non sapevo davvero cosa fare, fino a che scese dall’auto un’altra donna. Mi raccontò che sua sorella Margherita, così si chiamava la donna, dopo la morte del marito e dopo aver costruito questo monumento in suo ricordo, era venuta in possesso dopo molti mesi di un cellulare che il marito teneva in ufficio e che si erano dimenticati di riportarle. 
Sul telefono aveva trovato dei messaggi nei quali era esplicito che il marito, con la scusa del girare in bicicletta, in realtà andava a trovare un’altra donna, collega d’ufficio.
Lasciai la ruota come se scottasse.
Mi scusai con Margherita e le chiesi se voleva che fossi io a far sparire la bicicletta.
La sorella mi guardò facendomi capire che bastava così.
Tornai a casa e mi scusai con mia moglie.
Non avrei più fatto tardi in ufficio la sera.
Non ha mai capito il perché del mio cambiamento.

martedì 25 maggio 2021

Merletti e segreti (o viceversa)

 


Aspettavamo per cena una coppia con il figlio. Qualcuno lo aveva descritto problematico, e andava alla scuola elementare con il nostro. Non eravamo amici, ma solo genitori di compagni di classe delle elementari.

Ci si vedeva all’ingresso e all’uscita della scuola. Mia moglie aveva frequentata la madre del compagno solo per qualche riunione scolastica e niente chat di whats, vietata dopo l’ennesimo equivoco scatenatovi.

Parevano un po’ spaesati, soprattutto la madre, perché il padre non si vedeva molto.

Venivano da un piccolo paesino della Sicilia, si erano trasferiti in Emilia per il lavoro del marito, qualcosa che riguardava la sicurezza, la guardia giurata credo, mentre lei faceva la casalinga.

Li avevamo invitati anche per farli stare bene, per aiutarli a integrarsi. Non avevano amici da queste parti.


La settimana prima avevamo trovato in terrazza il nido di un qualche uccello. Il nido era vuoto, costruito in un giorno. Nascosto tra i rametti delle piccole piante che adornavano il bordo del terrazzo.

Lo teniamo? Lo buttiamo? Come comportarci? tutte domande che vennero spazzate via quando vedemmo arrivare a rotazione due merli, che avremmo poi capito essere il maschio e la femmina, che portavano ancora materiale alla costruzione della loro casa.

Da quel momento il loro nido diventò anche il nostro, una sorta di tabernacolo della vita che si rinnova, si sviluppa e va avanti nonostante tutto.

Speranza per i giovani compagni merli di avere dei piccoli merlini da accudire.

Erano state deposte le uova, ben quattro, ponendoci tutti in trepidante attesa della schiusa.


La sera della cena eravamo imbarazzati come lo sono degli sconosciuti che si studiano e si squadrano per trovare qualcosa da dire senza creare inconvenienti. Cercando di creare un ponte comune su cui stare assieme.

Accomodatevi, un attimo che prepariamo, date un’occhiata in giro che arriviamo subito, gli dicemmo dalla cucina.

Il marito era purtroppo molto silenzioso, la moglie aveva timore di dire e guardava spesso il marito come attendendo il parere favorevole alle proprie parole.

A volte lo sguardo del marito la zittiva. L’imbarazzo per noi era sempre maggiore. 

Poi venne fuori il discorso dei merli in terrazza. Raccontammo tutta la storia orgogliosi come se i merli fossero figli nostri.

La moglie ammiccava sorridente, il marito non sembrava molto interessato, ma se non altro non guardava male la moglie.

Il figlio divenne curioso di vederli dal vivo. 

Eravamo molto titubanti nel far vedere il nido, la merla stava covando e avevamo timore che se avessimo disturbato, gli uccelli avrebbero abbandonato il nido.

Ma il bambino non aveva aspettato il nostro permesso né i genitori l’avevano bloccato. L’unico accenno della madre era stato stoppato dal solito sguardo del padre.

Il bambino era andato in terrazza e poco dopo, con sguardo deluso e senza dire nulla si era accomodato a tavola.


Avrei voluto andare a controllare, ma sembrava brutto, come non mi fidassi del bambino. 

Avevo però un’altra possibilità, la webcam che avevo posizionato sopra al nido per tenerlo d’occhio senza disturbare.

L’avevo collegata a un pc in camera e così con una scusa andai a controllare con un’ansia nascosta.

La diretta mi confermò che l’ansia era ben riposta. Il nido non c’era più.

Il vaso di fiori su cui si erano dati tanto da fare i due merli, era senza nido. Le uova, la merla il nido, tutto sparito. Mio figlio era dietro di me e aveva visto tutto.

Non feci in tempo a bloccarlo che andò subito dal compagno urlandogli contro.

Mentre mia moglie cercava di bloccarlo, il bambino si mise a piangere farfugliando qualcosa.

I genitori vista la situazione decisero di andarsene con le scuse della sola madre.


Rimasti soli andammo in terrazza a vedere dove stava il nido. Sporgendomi dal parapetto del nostro piano rialzato, lo vidi, nido e uova sparse per il giardino sotto.

Andammo subito a recuperare tutto rimettendo al suo posto nido e uova. Non se ne era rotta nessuna. Non si trattava che aspettare e sperare nella merla.

Nel frattempo, andai a bloccare la diretta della webcam. Il programma cominciò quindi a elaborare la registrazione fatta.

Alla fine, mi trovai con l’ultimo video del nostro documentario sui merli. Cominciai a vederlo per dar loro un saluto, così senza senso dandolo a un video, ma il dispiacere era tanto. Sapevamo dei problemi del bambino e cosa avremmo potuto dire. Potevo solo essere triste per la situazione dei genitori.

Mentre pensavo a tutto questo, distrattamente guardavo e non guardavo il video. Mi resi conto di avere passato il momento della sparizione del nido, ma era strano che non fossi quasi alla fine.

Seguendo l’orario impresso nel video, andai verso la fine più o meno nel momento dell’uscita del bambino in terrazza e il nido non c’era già più. Anzi, il bambino, vista la webcam, si era affacciato facendo un sorriso deluso. 

Se non era stato lui allora chi?

Non mi restava che tornare indietro nel video e trovare quello che avevo paura di scoprire.

Che purtroppo trovai.

Il bambino problematico era il figlio del padre, che lo rendeva tale.


Forma o sostanza

- Oh, ma insomma, la smetti di guardare tutte le altre donne che incontriamo? -

Al mega centro commerciale per la spesa settimanale lui non smetteva di guardare le giovani commesse e le interessanti donne che incontravano.

- e dai, non sto guardando, osservo solamente -

- che differenza ci sarebbe, scusa? -

- una differenza sottile, ma essenziale – lo diceva sorridendole.

- come quando si guarda un’opera d’arte, la si osserva per carpirne i significati che l’autore ha voluto esprimere -

- continuo a non capire, ma vai pure avanti, vediamo dove arrivi -

- sono curiosa – aggiunse sorridendo prima e poi seria - curiosa di capire perché non mi guardi più -

- dai che non è vero – lo diceva mentre guardava una avvenente donna che si stava avvicinando.

- sì che è vero, guardi le altre perché hanno un corpo più bello del mio – lo strattonava per impedirgli di girarsi e seguirne il percorso.

- le guardi, le osservi, usa il verbo che ti pare, solo perché hanno ancora una taglia 38 - se avessero avuto figli le guarderesti meno - 

- se tu avessi avuto dei figli non avresti mantenuto il tuo fisico -

Mario rimase un po’ dubbioso sull’affermazione, la guardò, si guardò come stupito, e poi rispose, serio.

- certo, se li avessi avuti magari avrei fatto in maniera di stare più attento -

- voi uomini la fate facile, in realtà non siete riconoscenti e vi interessa solo una cosa -

- certo che ci interessa, ma non solo, e comunque guardare non fa male a nessuno, e io non sono come gli altri uomini -

- see, sempre così mi dici, immagino come manderesti via quella che è appena passata -

Queste discussioni si ripetevano tutte le volte in cui si recavano in qualche luogo pubblico.


Durante la settimana Sofia, tra le tante improbabili news del cellulare, trovò un articolo.

Stranezze del Mondo, così si chiamava la rubrica, parlava di una donna che lamentava di essere stata un uomo.

Casablanca era attiva per questo già dagli anni Ottanta, per cui, non sembrava questa gran notizia.

Dopo aver letto la successiva news, in cui un padrone aveva azzannato il suo cane, decise che la rubrica Stranezze del Mondo, non era degna di ulteriori approfondimenti.


Il sabato successivo nuova spesa.

La primavera era sbocciata e la temperatura favorevole aveva ampliato i centimetri quadrati femminili esposti agli occhi di Mario.

- Ho letto di una donna che era stata uomo – buttò lì Sofia.

- Divertente – mentre sorrideva alla cassiera.

- Sarebbe un esperimento interessante da fare - 

- In che senso? -

- Se tu diventassi donna magari capiresti cosa vuol dire per me andare in giro con te che sorridi a tutte -

- Io sarei stato più attento -

- A cosa? -

Mario sospirò, la guardò negli occhi pensando se fosse il caso di proseguire e alla fine sbottò.

- A non perdere la forma fisica, a non mangiare tutto quello che mi passa davanti, a fare almeno un po’ di attività fisica -

Sofia rimase basita, ma solo per un attimo.

- Ho capito che non te ne frega niente di me -

- Se facessimo il cambio io non sarei come te -

- Certo, sicuro, paghiamo e andiamo che si fa tardi e mi comincia la partita -

- Ciao Mario - disse una donna nella cassa di fianco mentre andava via.

- Ciao Lisa -

- Buongiorno – continuò stizzita Sofia.

- E quella chi era che non la conosco? -

- Una collega -

- Non l’ho mai vista ai pranzi aziendali - 

Stava per dirle che ci teneva alla linea e li saltava - È da poco che è stata assunta -

- Donna molto bella, e lo dico da donna – disse scocciata.

- È al marketing, e lì solo così le assumono -


Sofia quella notte fece un sogno in cui leggeva la rubrica “Stranezze del Mondo”.

La donna dell’articolo era diventata suo marito che guardava la partita in tv.

Subito dopo il sogno era cambiato di scena e, in soggettiva, lei guardava interessata altre donne al supermercato.

Si svegliò, tutta sudata. Che incubo nel cuore della notte, nel buio assoluto del cuore della notte.

Una volta ripresasi un bisogno naturale l’attirava verso in bagno.

Provò a scendere dal solito lato del letto, ma si accorse di essere dall’altra parte.

Appena entrata in bagno urtò la cesta della roba sporca, quello là lasciava sempre tutto in mezzo, e le scappò uno strano grido di dolore.

L’urlo di quella che era la sua voce, proveniente dalla camera da letto, la finì di svegliare.

Solo ora si rese conto che poteva espletare il bisogno urgente stando in piedi.

La successiva spesa del sabato sarebbe stata molto più divertente.


giovedì 18 marzo 2021

La vicina di casa


Come non raccontare della mia speciale vicina di casa. 

Per descriverla in una caratteristica, avrei detto che era sempre contenta. Così almeno sembrava a me che la sentivo uscire tutte le mattine per recarsi…boh, non so neanche dove.

Sicuramente andava in un bel posto, vista la gioia che l'accompagnava.

Era sempre al telefono, ascoltava un po’ e poi rideva. Generava una risata gentile e prolungata.

La spiavo dalla finestra scostando appena la tenda.

Credo che se ne fosse accorta. Credo che le piacesse. 

La sera tornava ed era ancora al telefono, sempre contenta, non solo sorridente, ma “ridente”. Molte risate, ma senza parlare quasi. Il suo interlocutore era molto spiritoso.

Piaceva averla vicina, sentirla vicina. 

Sarebbe stato bello invitarla a ridere un po’ con me, ma temevo di non essere all’altezza del suo interlocutore e mi dicevo che era meglio aspettare il momento giusto.

L’occasione sarebbe arrivata.

Prima o poi.


Lei abitava al piano sotto al mio, la sentivo solo nel rimbombo delle scale e la vedevo solo dalla finestra. 

Lei...non sapevo neanche il suo nome. Sul campanello era rimasto quello del precedente inquilino. 

Ci eravamo incontrati qualche volta, certo, ma buongiorno, buonasera, ciao.


Un giorno venne a trovarmi un amico informatico. Doveva farmi un intervento al pc, che utilizzavo per lavoro da casa. Il pc era molto sotto pressione, e io con lui se non funzionava.

“Pensi sia grave?”

“Temo sia necessaria una bella rinfrescata al sistema operativo, ma abbiamo tempo. Con che cena mi paghi l’intervento?” Disse scherzando mentre apriva gli sportelli in cucina come cercando qualcosa da mangiare.

Lo pagavo, per dire, facendogli un piatto di pasta e due scaloppine. Lui ci metteva il vino. Avremmo parlato di donne e altre amenità come due adolescenti.

La risata arrivò dolce e profonda dalla tromba delle scale.

“Ma chi è?” mi disse ammiccando. Sapeva della vicina, purtroppo gliene avevo parlato. 

“Sai che oggi sarei potuto venire anche prima, ma non volevo perdermela, volevo finalmente vederla”

Una punta di gelosia mi planò sulle spalle.

“Già, è lei, ma non ti distrarre” non volevo farla entrare nei suoi discorsi sulle donne.

“Non sarai geloso? È da mesi che me ne parli come se fosse la madonna”

“L’hai mai vista rientrare con un uomo?”

“Né far entrare un uomo” aggiunsi serio.

“Li va a trovare lei, ah, ah, ah” non poteva risparmiarsi di concludere.

Mi atterrò addosso una leggera incazzatura.

“Non ti permettere sai. Lei è speciale!” Dissi sorridendo, ma solo per dissimulare.

“Si, va bene, ho capito, andiamo a cenare così non ci pensiamo. Forse…”

Non l'avrei più invitato a cena. 

Solo a pranzo.

“Perché sorridi?” mi chiese il mio amico.


La cena andò avanti tranquilla con molte chiacchiere.

Al caffè mi accorsi che l’avevo finito, non trovavo più il vasetto dopo lo tenevo.

“Dovresti andare giù e chiederle un po’ di caffè” disse come si fosse preparato la domanda.

“La solita scusa stupida per attaccar bottone, dai, non posso” 

“Ti fai troppi problemi, ci vado io”.

Pensavo scherzasse.

E invece ci andò.

Scese le scale.

Bussò alla porta.

La sentii ridere a qualcosa che le aveva detto il mio l’amico.

Sentii chiudere la porta.

Rimase solo il silenzio del vano scale.


Il caffè lo presi il giorno dopo, il vasetto era stato nascosto in fondo a un armadietto.


lunedì 27 luglio 2020

Turno di Notte 2020 - Cogito ergo sum

versione iniziata alle 10 del 25 e servita alle ore 3 del 26 luglio 2020
per il concorso "Turno di Notte"


Cogito ergo sum – Stefano Samorì

L'incipit di Carlo Lucarelli da cui proseguire nella scrittura: 
Ci sono desideri che sembrano impossibili, così grandi e così complessi, così difficili che figurarsi, e invece in un attimo, come per caso, si avverano.
E ce ne sono altri che sarebbero lì, a portata di mano, di dito, addirittura, e poi niente, via, svaniti, scomparsi.
E questo?
Qual era, cos’era, questo?

Svegliarsi rendendomi conto di essere nel buio totale non era stato piacevole.
Steso, sdraiato su una superficie morbida.
Silenzio totale attorno a me.
Sentivo solo il mio respiro.
Provai a muovermi ma non avevo molto spazio intorno. Le mani toccarono subito una superficie morbida, sembrava un cuscino, un esteso cuscino. Potevo sentire i bottoni che fermavano l’imbottitura.
Tutt'intorno sentivo solo imbottitura e bottoni.
Quattro angoli squadravano lo spazio attorno a me.
Provai a ruotarmi ma non avevo spazio sufficiente per farlo.
Non poteva essere che quello che ormai pensavo.
Non dovevo pensarci, era da impazzire affogato nella follia.
Come potevo esserci finito se non ricordavo di essere morto.
Nessuno ricorda di essere morto, del resto nessuno dovrebbe risorgere in queste condizioni.

domenica 14 luglio 2019

Turno di Notte 2019 - Ricordi




versione scritta e servita alle ore 5 del 6 luglio 2019
per il concorso "Turno di Notte



“Erano due, e un attimo dopo tre. 
Ma all'occhiata successiva, giusto il tempo di abbassare lo sguardo, non c’erano più”.
“E perché?”
“Non lo so. Non era la domanda più importante, in quel momento. Avevo una strana sensazione”.
“Preoccupazione? Inquietudine? Paura?”.
“No. Direi sollievo. Di più…felicità. Gioia”.
Come ci ero arrivato, mi chiederete?
“È una lunga storia”.
“Adalgisa era la più veloce, ma anche la più bella, e tutte le pattuglie la fermavano”.

Queste erano alcune frasi che qua e là avevo letto all'interno di un piccolo quaderno giallo trovato nella cantina dei nonni.
“Alessandro, andiamo a cenare che il nonno sai che non vuole si faccia tardi”.
“Ti ho già chiamato tre volte…” Mi disse ancora la mamma richiamandomi all'ordine.
“E non prendere in casa altri fumetti…” continuò, mi piacevano i vecchi Tex del nonno.
Sembrava mi avesse letto nel pensiero, dicendomelo.
Lasciai il vecchio quaderno, molto a malincuore, dove lo avevo trovato.
Cosa ci sarà scritto, chi lo avrà scritto, dove, quando… molte domande mi correvano per la mente mentre mia madre mi stava dicendo qualcosa…
“Come hai detto mammina?” cercando di essere servizievole.
“Passa il parmigiano al nonno che te l’ha chiesto da mezz'ora” mi rispose un po’ alterata.
“Su dai, lascialo respirare un po’, sto povero bambino, che è stato così bravo a scuola” intervenne, con mia somma gioia, la nonna.
La mamma sintonizzò lo sguardo su “poi facciamo i conti dopo”.
Ma i conti dopo non li facemmo, almeno quella sera.
Mi aspettavano gli amici al campetto di calcio per una nuova mitica partita, e la fuga immediata dopo cena impedì alla mamma di fare conti.

Il mattino dopo, tornai in cantina a rovistare. La cantina dei nonni era una miniera di materiale da scoprire, o di roba da buttare, diceva la mamma.
Che poi in parte aveva anche ragione, ma a dieci anni tutto quello che era più vecchio di me, sembrava mitico, come provenisse da un remoto passato che nascondeva misteriosi segreti.
Quel quaderno era molto più vecchio di me. Si capiva dagli angoli consumati della copertina. Dal tema raffigurato nella prima pagina. Dall’aroma che emanava, qualcuno avrebbe detto puzza, di polvere, umida e stantia.
Cominciai a leggere.
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“È una lunga storia”.
La mattina in cui mi catturarono era una bella mattina di gennaio, di quelle belle fredde, di quelle che la neve in collina arriva ai primi piani, di quelle che si starebbe meglio in una casa con il camino acceso, avendo la legna da bruciare.
Nel 1944 ormai di legna non ne era rimasta molta. Troppi inverni di ristrettezze e razionamenti ci avevano portati al disastro finale che si prospettava.
A noi renitenti alla leva non restava che la fuga nei boschi delle nostre colline. La pena era la fucilazione e tanto valeva fare qualcosa per cercare di liberarci.
La repubblica, perché poi chiamarla repubblica, di Salò e la linea Gotica, avevano congelato tutto il nord dell’Italia nell'attesa sfibrante di essere liberato.
A vent'anni non avevamo mezze misure, e fare il partigiano era meglio che fare il repubblichino. Certo non tutti la pensavano così.
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Mi fermai pensando a quello che leggevo. Di cosa stava parlando il quaderno? Chi erano questi partigiani?
Andai a chiedere alla mamma, che prima si lamentò del fatto che la storia a scuola non si fa più, poi che non aveva tempo e infine mi girò verso mio padre, che era al lavoro fino a sera…
Per questo l’unica era andare su internet e cercare.
Peccato che si trovasse di tutto, chi ne parlava bene e chi male. Chi parlava bene dei partigiani e chi ne parlava male.
Parteggiavo per i partigiani, ma forse era perché il protagonista misterioso lo era?
Tornai alla lettura del quaderno.
La storia si dilungava su diverse azioni compiute dal protagonista.
Era un diario di azioni pericolose, di nemici e amici morti.
Fino a che anche il mio “amico” fu catturato.
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E un giorno mi catturarono
Dopo un sommario processo, e dopo avermi picchiato per fare vedere che erano dei duri, senza che avessi detto niente, il capitano dei repubblichini mi condannò a morte.
Il mio gruppo aveva attaccato due camion di tedeschi e fascisti che erano appena stati a rastrellare un paesino vicino picchiando e facendo quello che volevano.
Inferiori di numero, dopo averli mitragliati e averne uccisi qualcuno e finito l’effetto sorpresa, eravamo dovuti scappare in fretta in tutte le direzioni.
Purtroppo, alcuni di noi erano stati catturati.

Quella mattina del gennaio del 1944, ero davanti a un quartetto d’italiani vestiti di nero, magari con qualche strappo ai vestiti, che ormai eravamo alla fine della storia.
In tre mi puntavano contro i loro moschetti. Il quarto, poco più anziano ordinava.
Al primo sparo, due moschetti scoppiarono mentre il terzo fallì il bersaglio.
Non sentii neanche il sibilo sfiorarmi. Se volevano spaventarmi, con quei due scoppi, a loro insaputa lo avevano fatto.
Dopo una serie di bestemmie che pronunciarono in coro, pur diverse tra loro, che tanto erano già destinati all'inferno, andarono a prendere altri moschetti che avevano dentro la baracca lì a fianco.
Mi venne quasi da ridere, ma vista la situazione, cercai di stare serio.
“E perché?”
“Non lo so. Non era la domanda più importante, in quel momento. Avevo una strana sensazione”.
“Preoccupazione? Inquietudine? Paura?”.
“No. Direi sollievo. Di più…felicità. Gioia”.
Sapete quella sensazione che avete in cui siete certi che il prossimo numero che estrarranno vi garantirà di fare tombola?
Quella gioia.
Si rimisero in fila, due che erano ancora tutti neri dell’esplosione avvenuta prima che non so neanche se ci vedessero bene, con i nuovi fucili, assieme al “cecchino” di prima.

Che poi non è che dovessi lamentarmi della mancata organizzazione, del resto era sempre stata un po’ così anche in tempi migliori, non potevano certo arrivare tutti i treni in ritardo neanche allora.
“Pronti, attenti, via…” ci fu una grossa esplosione e non riuscirono a fare altri spari.
Uno scomparve disintegrato, gli altri volarono via, “Erano due, e un attimo dopo tre. Ma all'occhiata successiva, giusto il tempo di abbassare lo sguardo, non c’erano più”.
Anch'io caddi indietro spinto dallo spostamento d’aria, quasi illeso, a parte una ferita a una gamba e un’altra a un braccio.
Uno del plotone di esecuzione, andando indietro doveva aver premuto un qualche ordigno che era rimasto inesploso fino a quella mattina.
Non era rimasto molto dei quattro ragazzi che volevano fare il bene dell’Italia.
Un po’ mi dispiaceva comunque, per com'erano arrivati a pensare che quella fosse la strada giusta da percorrere.
Adalgisa arrivò per prima con la sua bicicletta pensando che fosse oramai successo l’irreparabile.
Subito dietro di lei arrivarono gli altri compagni, armati e decisi a liberarmi.
“Adalgisa era la più veloce, ma anche la più bella, e tutte le pattuglie la fermavano”.
Lo diceva sempre il nostro capitano. È perfetta per distrarre le pattuglie. La perquisiscono ogni volta inutilmente mentre altre passano senza farsi notare e portano ordini.
“Non è niente di grave, non ti preoccupare” le dissi.
Aveva uno sguardo preoccupato ma felice nel medesimo momento.
“Devo dirti una cosa Antonio” Antonio ero io.
“Che succede d’altro” le dissi preoccupato.
“Aspettiamo un bambino e lo voglio chiamare Licinio”.
“Licinio?”
“Ma come ti viene in mente di chiamarlo Licinio?”
Le risposi, come se non fossi sorpreso, scherzando sul nome che in realtà piaceva anche a me.
“Brutto… coso… che non sei altro, sono incinta e adesso devi fare il tuo dovere, e il nome lo scelgo io”.
Disse abbracciandomi e baciandomi facendomi anche provare un gran male al braccio ferito con la stretta.
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Licinio!
Ma, è il nome del nonno…
Quello che vuole sempre cenare alle 18:30.
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“È una lunga storia”.
Mentre eravamo abbracciati Ada ed io, e assieme ai miei compagni festeggiavano lo scampato pericolo, sentimmo arrivare un camion da dietro la curva che dava nella cava dove eravamo.
I camion li avevano solo i tedeschi, se trovavano carburante per farli viaggiare.
E, infatti, non facemmo in tempo a scappare che il camion arrivò.
La sparatoria che ne scaturì vide la morte di metà dei miei compagni e la cattura degli altri.
Ne uccidemmo molti anche noi, ma la consolazione era molto magra.
Persi di vista Ada.
Fummo deportati in un campo di concentramento dopo un viaggio durato giorni su un carro bestiame.
Il campo era in Polonia
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Il bisnonno continua descrivendo situazioni che non possono essere accadute. Persone lasciate morire di stenti, la caccia ai topi per nutrirsi, forni in cui erano bruciati i cadaveri, camere in cui erano uccise persone con gas…
Non possono essere successe queste cose.
Il solito internet mi dovrebbe fornire maggiori informazioni. Ma anche questa volta trovo di tutto, anche chi dice che queste cose non sono mai successe.
Perché il bisnonno dovrebbe mentire nel suo diario?
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Finalmente tornammo a casa. L’Italia aveva perso la guerra. Il fascismo era stato sconfitto. I treni continuavano come prima a fare come potevano.
Ritrovai Adalgisa. Era riuscita a scappare e non l’avevano catturata. Era davvero veloce in bicicletta. Il mio Licinio mi aspettava con lei.
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Andai da mamma per farle vedere il quaderno che avevo ritrovato in cantina in mezzo ai tanti fumetti del nonno.
“Mamma, guarda cosa ho trovato in cantina”.
La mamma stava per sgridarmi, ma si fermò quando vide la copertina del quaderno.
Lo prese e lo accarezzò, come se avesse ritrovato un vecchio amico.
“Va bene, Alessandro, adesso parliamo dei bisnonni Antonio e Adalgisa.

sabato 17 marzo 2018

Adelina

Ero davanti alla Rocca di Castel San Pietro Terme, un po’ uno dei simboli del comune, o almeno così me lo aveva venduta un anziano signore, dopo pochi minuti in cui mi ero fermata a valutare il lavoro che avrei dovuto affrontare a breve.
L’umarell, in anticipo su tutti, era già presente prima ancora che iniziassero i lavori. Complimenti. Avrei avuto molti occhi addosso, durante questo restauro.
“Ricordo quando da bambino ci giocavamo dentro simulando un assalto al castello” pronunciò in un dialetto che capivo bene.
“E poi la più bella dava il bacio al suo re…”. 
Lo guardavo parlare mentre ammirava la torre. Il suo sguardo era perso nel ricordo della bella ragazza che, forse, le aveva regalato un bacio, oppure no, ma mi piaceva pensare che gli fosse andata bene.
La rocca medioevale era lì che aspettava da molti anni. Dall’aspetto appariva ancor più vecchia e abbandonata da com’era ricoperta di sterpi e di rovi.
E proprio a me sarebbe toccato metterci mano, da restauratrice.
Una torre medioevale è sempre affascinante, a parer mio. Non sai mai cosa ci puoi trovare.
Di lì a una settimana il cantiere era insediato. Una bella recinzione, con le graziose reti arancioni a fori grandi, aiutava i diversi umarell che si presentavano per verificare i lavori.
Anche l’amico iniziale tornò a farsi vedere. Si chiamava Gino. Gli offrii un caffè perché mi era simpatico.
E poi comunque avevo poco da fare all’inizio. Erano in azione robusti giardinieri che dovevano liberare la struttura da tutta la giungla di piante che ricoprivano la struttura in muratura.
Mentre cercavamo l’attenzione della barista, intenta a scrivere qualcosa sul cellulare, ci mettemmo a parlare del più e del meno, almeno così sembrava all’inizio.
“Deve sapere che in quella torre ci siamo anche nascosti durante la guerra” Mi parlava in un italiano lento con rispetto della mia condizione di non-parlante il dialetto.
“A causa dei tedeschi?” domandai con una richiesta, in effetti, scontata.
Non ci fece caso.
“No, a causa degli italiani, degli italiani fascisti”.
Fece una pausa mentre finalmente ordinavo i caffè.
La confusione al bar era notevole e gli chiesi se voleva sedersi. Gli avrei portato il caffè.
Mi andò ad aspettare al tavolino più nascosto e riservato. Con quaranta anni in meno, avrei pensato che ci stesse provando.
“Con alcuni di loro avevamo giocato nella torre, da bambini”. 
“Ma la principessa non li aveva accontentati” rise malinconico. 
Ero contenta che fosse stato lui il destinatario del bacio.
“Arturo si sarebbe ricordato del torto…”
Ci interruppe uno dei giardinieri che arrivò tutto trafelato al bar.
“Signora…deve venire subito al cantiere…”
“Che cosa è successo?” mentre mi alzavo e andavo via dimenticando anche di pagare.
Guardai il mio amico che era rimasto con le parole sulla punta della lingua, anche se lo sguardo era triste e sconsolato.
Andammo al cantiere. Gli umarell, con il loro sesto senso da cantiere, si erano accorti che qualcosa non andava, o forse qualcuno sapeva cosa aspettarsi?
Gli operai, dopo aver diradato l’ingresso della rocca, avevano iniziato ad addentrarsi fino a trovare un’acacia molto sviluppata, che si era insinuata tra i mattoni della struttura.
Per toglierla “abbiamo dovuto tirare e questo ha provocato un piccolo crollo del muro” mi disse il capo giardiniere.
“Dietro abbiamo trovato questo”. E mi mostrò uno scheletro con ancora addosso brandelli di vestiti. Un uomo, vista la stazza, con vestiti neri.
Mi girai indietro come sentendone la presenza e vidi che dietro le reti arancioni c’era Gino che mi fissava. Vicino a lui un amico, se possibile, ancora più vecchio e altri due di dietro…
Sembravano un gruppo affiatato di un qualche club. 
Guardandoli meglio me li cominciai a immaginare con tanti anni di meno.
Quando erano poco più che adolescenti, che poi allora ad avere sedici anni si era già uomini. 
“Signora, che facciamo, dobbiamo avvisare qualcuno?”
Farfugliai qualcosa…c’era da avvisare i Carabinieri, fermare il cantiere e non sapevo neanche io cos’altro fare.
Soprattutto volevo parlare con Gino e i suoi amici.
Presi tempo.
“Adesso andate tutti a casa, per il momento il cantiere si ferma”.
Gli operai andarono via e chiusero l’accesso al cantiere.
Io sapevo di dover andare dalle forze dell’ordine ma qualcosa mi diceva di non farlo.
Gino mi aspettava con tutta la sua compagnia.
Compagnia “Amici della torre” si chiamava allora.
Anche sul finire della guerra si facevano chiamare così. Poco più che ragazzini avevano cominciato quasi per scherzo a fare i “partigiani”.
In realtà solo piccole azioni di disturbo, quasi delle ragazzate, sennonché una volta successe che mettendo un filo di acciaio teso tra due alberi, mozzarono la testa a un tedesco che arrivava in motocicletta. 
Il problema era che dietro il decapitato stava scortando un’auto con un generale del comando tedesco accompagnato da un gerarca fascista di Bologna.
Trovarsi con la testa in braccio, non piacque al tedesco che ordinò un immediato rastrellamento per trovare dieci italiani da fucilare.
E diede molto impulso ai fascisti del luogo di poter fare quello che volevano, semmai avessero avuto qualche indugio prima.
E qualcuno si ricordò del bacio mancato alla vecchia torre.
“Trascinarono la nostra principessa alla torre perché Arturo voleva il bacio che non aveva avuto” mi raccontò Gino.
Noi intanto eravamo scappati in campagna a Mordano, da un amico di mio padre.
“Ci raccontarono che Adelina urlava che non voleva e alla fine qualcuno chiamò il prete che si prese pure le botte poi, ma riuscì a far scappare Adelina”.
“Quando ne fui informato, tornai facendo in maniera che lo sapesse Arturo”.
“Mi aspettava, insieme con altri tre, alla torre”. 
“Neanche io andai solo, gli altri che vedi ancora adesso insieme con me, erano nascosti”.
“Adelina e tutto il paese sapevano”.
“I fascisti facevano finta di niente, erano contenti che i loro giovani agissero in quella maniera”.
“Insomma venimmo alle mani, e nella lotta Arturo cadde sbattendo la testa. Morto”.
“I suoi amici si presero una gran paura e scapparono via”.
“Noi rimanemmo lì, interdetti su cosa fare”.
“La torre era già allora non molto curata, e ci venne l’idea di far in maniera che il cadavere rimanesse nascosto per sempre”.
“Gli costruimmo intorno una bara di mattoni, sigillando tutto e sperando in Dio”.
“Dio o il caso il giorno dopo ci aiutò.  Un errato bombardamento, fece cadere delle bombe intorno alla torre facendone crollare una parte. Una bomba rimase inesplosa davanti all’ingresso vietandone il passaggio a chiunque”.
“Passarono i giorni e le settimane, poi arrivarono i polacchi che liberarono Castello”.
“E tra le tante questioni che avevano i fascisti, tra riciclarsi e liberarsi dei fardelli del ventennio, la faccenda della morte di Arturo fu dimenticata”.
Facemmo una lunga pausa.
La barista ci venne a chiedere cosa volessimo.
Non la considerammo.
“Adelina...?” chiesi io.
“Dopo aver vissuto assieme tanti anni, adesso riposa al cimitero di Castello”.
Mi guardavano tutti. Pendevano dalle mie labbra. Speravano in quello che non è sperabile.
Da una persona sensata come mi reputavo.
“Ok, siamo stati sfortunati con questo cantiere” dissi.
“Abbiamo trovato una bomba inesplosa nel cantiere e nessuno può entrarvi” continuai senza pensarci.
Gino e gli altri mi abbracciarono tra lo stupore della cameriera inorridita.
“E stanotte tutti al cantiere che dobbiamo togliere ‘la bomba’”.

domenica 2 luglio 2017

Ricordi Farciti

Ricordi Farciti

versione scritta e servita nelle 5 ore del 22 aprile 2017
del concorso  "Premio Letterario Città di Castel San Pietro Terme"


La piazza era come la ricordavo.
Era da tanto che non mi recavo più in quel comune in cui avevo lavorato tanti anni prima.
Mi erano rimasti solo i buoni ricordi.
Abbiamo un fantastico meccanismo del nostro cervello, che ci fa dimenticare le preoccupazioni e le angosce passate, oggi dissolte e derubricate in esperienze di vita.
Poi ci sono le persone che hai conosciuto, alcune speciali e altre di cui hai dimenticato perfino l’esistenza.
Si dice sempre che “ci rivedremo”, “verrò a trovarvi”…, ma poi la vita ci porta verso altri lavori, altri colleghi e verso altre situazioni, mentre il tempo passa, e quando ti rendi conto che sono passati dieci anni, capisci che è assurdo andare a trovare persone che hai dimenticato, come loro hanno dimenticato te.
Corri solo il rischio che capita a certi pensionati che tornano a trovarti sul luogo di lavoro, commoventi nel cercare di interpretare l’ormai perduto ruolo che avevano scambiato, per l’agognata ma noiosa, vita da pensionati.
Comunque ero tornato per un concorso di scrittura in diretta. Armato di pc e mouse e per cinque ore scrivere un racconto da zero, parlando del paese che ci ospitava.

sabato 23 gennaio 2016

Tempi

Tempi

1938
Giuseppe Rossi guardava fuori dalla finestra della cucina di casa sua.
Impaurito da quello che succedeva in piazza. In"Piazza Impero Italiano d'Etiopia”.
I suoi genitori erano dietro di lui e guardavano atterriti il pestaggio che stava avvenendo poco lontano da loro.
A 8 anni certe cose non si capivano, e certo non poteva capire quello che stava accadendo, ma comprendeva, comprendeva bene che stavano facendo molto male a quel ragazzo di vent'anni.
Il ragazzo, a terra subiva pugni, calci, sputi. Quegli uomini vestiti di nero urlavano, sbraitavano di tutto. Come scimmie il branco alimentava la propria rabbia. Gli dimostravano tutto il loro disprezzo e lo facevano capire anche a tutte le brave persone che guardavano. Alcune imbarazzate, altre divertite, altre...indifferenti.
I genitori commentarono con una parola, qualcosa che il piccolo Giuseppe non aveva mai sentito. Sussurravano ”...invertito”, o qualcosa del genere.
L'aggressione finì solo quando arrivò la mamma del ragazzo. Si mise in mezzo prendendosi anche lei qualche ultimo schiaffo.
Ma tanto bastò per farli smettere "...ti lasciamo alla mammina, ma non ti fare più vedere in giro a disturbare i veri uomini... ti lasciamo con la mammina..." il loro linguaggio era povero, e giù risate.
Giuseppe di quell'età avrebbe ricordato poco di più di quel solo episodio. Il piccolo paese dove abitavano era al centro di niente, nel bene ma sicuramente nel male.
E di “Invertito” aveva capito che non era una buona cosa, anche se ancora non sapeva cosa volesse dire.
Il ricordo dei genitori, che ne parlavano facendosi il segno della croce, gli rimase per molto tempo.

lunedì 1 giugno 2015

INVERNO

AVVISO IMPORTANTE
Vista il tema affrontato, la lettura del racconto è sconsigliata a minorenni o a persone facilmente impressionabili.

Menzione speciale Concorso internazionale per racconti brevi Premio letterario “La Valle delle Storie”

INVERNO

Stella si trascinava sulle stanche gambe. La neve le arrivava fino al ginocchio e, pur essendo passati pochi minuti dalla sua fuga dal capanno in mezzo al bosco, era faticoso proseguire. I suoi aguzzini, stanchi, ubriachi d’alcool e di altre sostanze, erano crollati a terra senza far caso al lucchetto, aperto, nella catena di Stella. L’avevano legata in fretta e male. La porta d'accesso non era chiusa.
Non avrebbe voluto andarsene da sola. Sarebbe voluta scappare con le altre due ragazze. Ma i loro lucchetti non erano aperti. Le aveva lasciate dicendole che sarebbe tornata per liberarle.

Tutto era iniziato sei mesi prima. Aveva partecipato ad un concorso di bellezza nella sua Albania. I  vent’anni e le forme giuste avevano vinto. Gli organizzatori le avevano proposto una tournée in Italia.
In patria il lavoro non c'era e le avevano promesso che in Italia avrebbe trovato “sicuramente” qualcosa d’interessante. Conoscevano persone che cercavano ragazze giovani e di bell’aspetto per presentazioni di prodotti, per fare da hostess in fiere e cose del genere. Stella conosceva anche l’italiano e questo sarebbe servito.
“magari ti trovi un bel ragazzo italiano che ti sposa” le avevano buttato lì.
E di ragazzi italiani ne aveva trovato tanti. Per lo più erano ex-ragazzi molto cresciuti. Lei piaceva molto agli uomini e il lavoro in Italia non le sarebbe mai mancato.

mercoledì 25 febbraio 2015

Quello che le donne non dicono.

Questo il racconto che verrà letto il 2 marzo a Imola.


LA PALESTRA

 
Sabato pomeriggio in palestra. Invece dello shopping e meglio delle pulizie di casa… . La mia amica Maria mi aveva convinto ad iscrivermi. Giusto per fare un po’ di movimento. Mi aveva detto. Ma perché andarci così tardi. E fare tutto di corsa perché la palestra stava per chiudere.

Era sempre stata lei a proporre, ad organizzare. Amiche da sempre anche per quello. Io quella tranquilla e pacata, a volte anche noiosa. Lei sempre in accelerazione sulla vita. Mi faceva comunque bene vederla adesso che ero anche sola.

andiamo in palestra, facciamo un po’ di moto che ci fa bene … e ci tira su l’umore”.

D’accordo sul moto, ma essere le più anziane presenti non mi alzava molto il morale.

Forse un tempo eravamo state desiderate e desiderabili ? 
E chi se lo ricorda più. Comunque quel tempo era passato, almeno per me.
Non fare la musona, dai un’occhiatina a quei bei ragazzi”
Ma dai, potrebbero essere nostri figli” ribattevo io, vergognandomi di averci comunque dato una sbirciata anche se solo per poter rispondere all’amica.
E poi il movimento fisico aumenta la produzione di endorfine” continuava sulla scia salutista Maria. Eravamo alla fine dei venti minuti di bicicletta e parlava, parlava, in continuazione. Non so come facesse. Tra la stanchezza e le sue parole il risultato fu di farmi estraniare. Di farmi perdere in una trance di flashback. Come quando… il ricordo dei tempi passati ritornava prepotente. Nel mio avere vent’anni c’era stato tutto e niente. Allora non c’erano queste palestre. Noi donne stavamo di più in casa. E davamo retta ai consigli della mamma.

Patrizia… Patrizia” sentii urlare Maria.
“… cosa c’è?” risposi con voce impastata, come se mi avesse appena svegliato.
ti eri distratta guardando i ragazzi eh ?” mi disse con lo stesso tono che avrebbe avuto scoprendomi con le dita nella marmellata.

mmm…” farfugliai qualcosa senza senso per perdere tempo, in effetti mi resi conto di essermi incantata a fissare i due ragazzi rimasti. Ridacchiavano tra loro guardandomi. Ritenevo che si stessero burlando di me.

Mi girai verso la mia amica “no, no, tutto questo movimento per farci apparire giovani … mi ha fatto ripensare a quando avevamo l’età di quei ragazzi. Mi ero incantata mentre pensavo alla nostra gioventù così diversa”

La sera non potevamo uscire, la messa alla domenica come unico momento di vera socializzazione con i nostri sguardi che si incrociavano con quelli dei ragazzi.”
e poi il prete che ci riprendeva dicendoci che le signorine non devono fare le vanesie!!!” urlò Maria
vanesie !!! Sta parola non la sentivo da quarant’anni, da dove l’hai tirata fuori Maria?”
Don Carlo mi ha cresciuto con le sue reprimende. A proposito ti ricordi di quel cappellano giovane e carino che ci mangiavamo con gli occhi ???”

certo, ricordo anche che andò via senza salutare, così, all’improvviso mentre avrebbe dovuto rimanere da noi …” non riuscii a proseguire. Un’improvvisa associazione mentale mi balenò in mente.

Guardai la mia amica. Eravamo ormai scese dalle biciclette e ci eravamo accomodate sudate ed ansimanti, sulla panca per gli addominali. Mi fissava senza dire nulla con quel suo fare furbetto che aveva sempre avuto, da gatto che si è appena mangiato il topo.

Non puoi aver fatto quello che penso che tu abbia fatto” dissi con poca convinzione.

Il cappellano con lo zio Vescovo, avviato alla carriera ecclesiastica, proprio lui. Il parroco ci sorprese nella sua camera. Non era ancora pronto a rinunciare alla carne. Anzi direi che gli piaceva proprio tanto…” rimarcò soddisfatta Maria.

ma … come hai potuto farlo, e non dirmelo mai tutti questi anni ?”
anche io avevo una cotta per quel ragazzo, ma non mi sarei permessa …, come hai potuto ? era quasi un prete !!!”
cara Patrizia, ti facevi troppi problemi allora come adesso. Io volevo godermi la giovinezza e me la sono goduta”
quel cappellano piaceva a tutte ma solo io sono andata in camera sua, voi avevate paura di quello che avrebbero detto mammina e la gente”
rimani vergine fino al matrimonio, concediti solo la prima notte di nozze, e solo per fare figli, ma quante ce ne dicevano allora ?”

Guardavo la mia amica e non la riconoscevo più mentre lei imperterrita andava avanti.

perché, mi sono sempre domandata, perché gli uomini potevano fare quello che volevano, mentre noi povere verginelle dovevamo aspettare il principe azzurro e lunghi e pallosi fidanzamenti mano nella mano ?”

Mentre ascoltavo il Maria pensiero, pensavo, inebetita, a tutti i problemi che mi ero fatta allora. Ero stata nel giusto ad aspettare, non cadere in tentazione o aveva fatto bene la mia amica a godersela ?

tu hai aspettato il principe azzurro e alla fine ti sei dovuta accontentare per non rimanere sola”
ma cosa dici” stava esagerando e non ne capivo il motivo, mi alzai per andarmene ma lei mi trattenne.
perché, non è vero? adesso dov’è il tuo uomo?”
Era un colpo basso, ma colpiva nel segno. Mi ero separata da una decina di anni scoprendo che andava a puttane, spendendo tutti i nostri soldi.
hai aspettato il tuo uomo ideale per scoprire che non lo era poi così tanto”

Non seppi ribattere. Sapeva che questo pensiero mi aveva accompagnato tutta la vita. Aspettare l’uomo ideale lasciando perdere storie prima e anche dopo al matrimonio. Tutto perché credevo che fosse giusto fare così. Non ne so neanche davvero il motivo. Forse solo perché mi era stato detto che si doveva fare in questo modo. Nonostante che mio marito non fosse mai a casa e ci provasse con tutte.

non fare quella faccia triste, la vita non è ancora finita…”
La guardai, aveva nuovamente il viso da gatto, ma stavolta prima di mangiarsi il topo.
tu pensavi che fossimo venute in palestra all’ora della chiusura per fare ginnastica…”

Mi sembrò di scorgere un gesto, lieve, con gli occhi, rivolto ai due ragazzi seduti all’altro lato della palestra.

Ma cosa pensavo, scacciai il concetto “cosa vuoi dire?” le chiesi mentre mi aumentavano i battiti del cuore ma non per la fatica.

hai mai fatto la sauna?” e stavolta fece davvero un esplicito richiamo con la mano verso i ragazzi, che infatti si mossero subito verso di noi.

si, ma che cosa vuoi dire, che cosa stai facendo?” mentre guardavo i due ragazzi palestrati che ci si avvicinavano.

Facevo finta di non capire quello che avevo inteso benissimo.
ancora non ci sei arrivata ?” disse infine Maria.
andiamo ragazzi, la mia amica è tanto che non fa una sauna e ne ha un gran bisogno …”.