lunedì 27 luglio 2020

Turno di Notte 2020 - Cogito ergo sum

versione iniziata alle 10 del 25 e servita alle ore 3 del 26 luglio 2020
per il concorso "Turno di Notte"


Cogito ergo sum – Stefano Samorì

L'incipit di Carlo Lucarelli da cui proseguire nella scrittura: 
Ci sono desideri che sembrano impossibili, così grandi e così complessi, così difficili che figurarsi, e invece in un attimo, come per caso, si avverano.
E ce ne sono altri che sarebbero lì, a portata di mano, di dito, addirittura, e poi niente, via, svaniti, scomparsi.
E questo?
Qual era, cos’era, questo?

Svegliarsi rendendomi conto di essere nel buio totale non era stato piacevole.
Steso, sdraiato su una superficie morbida.
Silenzio totale attorno a me.
Sentivo solo il mio respiro.
Provai a muovermi ma non avevo molto spazio intorno. Le mani toccarono subito una superficie morbida, sembrava un cuscino, un esteso cuscino. Potevo sentire i bottoni che fermavano l’imbottitura.
Tutt'intorno sentivo solo imbottitura e bottoni.
Quattro angoli squadravano lo spazio attorno a me.
Provai a ruotarmi ma non avevo spazio sufficiente per farlo.
Non poteva essere che quello che ormai pensavo.
Non dovevo pensarci, era da impazzire affogato nella follia.
Come potevo esserci finito se non ricordavo di essere morto.
Nessuno ricorda di essere morto, del resto nessuno dovrebbe risorgere in queste condizioni.

domenica 14 luglio 2019

Turno di Notte 2019 - Ricordi




versione scritta e servita alle ore 5 del 6 luglio 2019
per il concorso "Turno di Notte



“Erano due, e un attimo dopo tre. 
Ma all'occhiata successiva, giusto il tempo di abbassare lo sguardo, non c’erano più”.
“E perché?”
“Non lo so. Non era la domanda più importante, in quel momento. Avevo una strana sensazione”.
“Preoccupazione? Inquietudine? Paura?”.
“No. Direi sollievo. Di più…felicità. Gioia”.
Come ci ero arrivato, mi chiederete?
“È una lunga storia”.
“Adalgisa era la più veloce, ma anche la più bella, e tutte le pattuglie la fermavano”.

Queste erano alcune frasi che qua e là avevo letto all'interno di un piccolo quaderno giallo trovato nella cantina dei nonni.
“Alessandro, andiamo a cenare che il nonno sai che non vuole si faccia tardi”.
“Ti ho già chiamato tre volte…” Mi disse ancora la mamma richiamandomi all'ordine.
“E non prendere in casa altri fumetti…” continuò, mi piacevano i vecchi Tex del nonno.
Sembrava mi avesse letto nel pensiero, dicendomelo.
Lasciai il vecchio quaderno, molto a malincuore, dove lo avevo trovato.
Cosa ci sarà scritto, chi lo avrà scritto, dove, quando… molte domande mi correvano per la mente mentre mia madre mi stava dicendo qualcosa…
“Come hai detto mammina?” cercando di essere servizievole.
“Passa il parmigiano al nonno che te l’ha chiesto da mezz'ora” mi rispose un po’ alterata.
“Su dai, lascialo respirare un po’, sto povero bambino, che è stato così bravo a scuola” intervenne, con mia somma gioia, la nonna.
La mamma sintonizzò lo sguardo su “poi facciamo i conti dopo”.
Ma i conti dopo non li facemmo, almeno quella sera.
Mi aspettavano gli amici al campetto di calcio per una nuova mitica partita, e la fuga immediata dopo cena impedì alla mamma di fare conti.

Il mattino dopo, tornai in cantina a rovistare. La cantina dei nonni era una miniera di materiale da scoprire, o di roba da buttare, diceva la mamma.
Che poi in parte aveva anche ragione, ma a dieci anni tutto quello che era più vecchio di me, sembrava mitico, come provenisse da un remoto passato che nascondeva misteriosi segreti.
Quel quaderno era molto più vecchio di me. Si capiva dagli angoli consumati della copertina. Dal tema raffigurato nella prima pagina. Dall’aroma che emanava, qualcuno avrebbe detto puzza, di polvere, umida e stantia.
Cominciai a leggere.
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“È una lunga storia”.
La mattina in cui mi catturarono era una bella mattina di gennaio, di quelle belle fredde, di quelle che la neve in collina arriva ai primi piani, di quelle che si starebbe meglio in una casa con il camino acceso, avendo la legna da bruciare.
Nel 1944 ormai di legna non ne era rimasta molta. Troppi inverni di ristrettezze e razionamenti ci avevano portati al disastro finale che si prospettava.
A noi renitenti alla leva non restava che la fuga nei boschi delle nostre colline. La pena era la fucilazione e tanto valeva fare qualcosa per cercare di liberarci.
La repubblica, perché poi chiamarla repubblica, di Salò e la linea Gotica, avevano congelato tutto il nord dell’Italia nell'attesa sfibrante di essere liberato.
A vent'anni non avevamo mezze misure, e fare il partigiano era meglio che fare il repubblichino. Certo non tutti la pensavano così.
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Mi fermai pensando a quello che leggevo. Di cosa stava parlando il quaderno? Chi erano questi partigiani?
Andai a chiedere alla mamma, che prima si lamentò del fatto che la storia a scuola non si fa più, poi che non aveva tempo e infine mi girò verso mio padre, che era al lavoro fino a sera…
Per questo l’unica era andare su internet e cercare.
Peccato che si trovasse di tutto, chi ne parlava bene e chi male. Chi parlava bene dei partigiani e chi ne parlava male.
Parteggiavo per i partigiani, ma forse era perché il protagonista misterioso lo era?
Tornai alla lettura del quaderno.
La storia si dilungava su diverse azioni compiute dal protagonista.
Era un diario di azioni pericolose, di nemici e amici morti.
Fino a che anche il mio “amico” fu catturato.
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E un giorno mi catturarono
Dopo un sommario processo, e dopo avermi picchiato per fare vedere che erano dei duri, senza che avessi detto niente, il capitano dei repubblichini mi condannò a morte.
Il mio gruppo aveva attaccato due camion di tedeschi e fascisti che erano appena stati a rastrellare un paesino vicino picchiando e facendo quello che volevano.
Inferiori di numero, dopo averli mitragliati e averne uccisi qualcuno e finito l’effetto sorpresa, eravamo dovuti scappare in fretta in tutte le direzioni.
Purtroppo, alcuni di noi erano stati catturati.

Quella mattina del gennaio del 1944, ero davanti a un quartetto d’italiani vestiti di nero, magari con qualche strappo ai vestiti, che ormai eravamo alla fine della storia.
In tre mi puntavano contro i loro moschetti. Il quarto, poco più anziano ordinava.
Al primo sparo, due moschetti scoppiarono mentre il terzo fallì il bersaglio.
Non sentii neanche il sibilo sfiorarmi. Se volevano spaventarmi, con quei due scoppi, a loro insaputa lo avevano fatto.
Dopo una serie di bestemmie che pronunciarono in coro, pur diverse tra loro, che tanto erano già destinati all'inferno, andarono a prendere altri moschetti che avevano dentro la baracca lì a fianco.
Mi venne quasi da ridere, ma vista la situazione, cercai di stare serio.
“E perché?”
“Non lo so. Non era la domanda più importante, in quel momento. Avevo una strana sensazione”.
“Preoccupazione? Inquietudine? Paura?”.
“No. Direi sollievo. Di più…felicità. Gioia”.
Sapete quella sensazione che avete in cui siete certi che il prossimo numero che estrarranno vi garantirà di fare tombola?
Quella gioia.
Si rimisero in fila, due che erano ancora tutti neri dell’esplosione avvenuta prima che non so neanche se ci vedessero bene, con i nuovi fucili, assieme al “cecchino” di prima.

Che poi non è che dovessi lamentarmi della mancata organizzazione, del resto era sempre stata un po’ così anche in tempi migliori, non potevano certo arrivare tutti i treni in ritardo neanche allora.
“Pronti, attenti, via…” ci fu una grossa esplosione e non riuscirono a fare altri spari.
Uno scomparve disintegrato, gli altri volarono via, “Erano due, e un attimo dopo tre. Ma all'occhiata successiva, giusto il tempo di abbassare lo sguardo, non c’erano più”.
Anch'io caddi indietro spinto dallo spostamento d’aria, quasi illeso, a parte una ferita a una gamba e un’altra a un braccio.
Uno del plotone di esecuzione, andando indietro doveva aver premuto un qualche ordigno che era rimasto inesploso fino a quella mattina.
Non era rimasto molto dei quattro ragazzi che volevano fare il bene dell’Italia.
Un po’ mi dispiaceva comunque, per com'erano arrivati a pensare che quella fosse la strada giusta da percorrere.
Adalgisa arrivò per prima con la sua bicicletta pensando che fosse oramai successo l’irreparabile.
Subito dietro di lei arrivarono gli altri compagni, armati e decisi a liberarmi.
“Adalgisa era la più veloce, ma anche la più bella, e tutte le pattuglie la fermavano”.
Lo diceva sempre il nostro capitano. È perfetta per distrarre le pattuglie. La perquisiscono ogni volta inutilmente mentre altre passano senza farsi notare e portano ordini.
“Non è niente di grave, non ti preoccupare” le dissi.
Aveva uno sguardo preoccupato ma felice nel medesimo momento.
“Devo dirti una cosa Antonio” Antonio ero io.
“Che succede d’altro” le dissi preoccupato.
“Aspettiamo un bambino e lo voglio chiamare Licinio”.
“Licinio?”
“Ma come ti viene in mente di chiamarlo Licinio?”
Le risposi, come se non fossi sorpreso, scherzando sul nome che in realtà piaceva anche a me.
“Brutto… coso… che non sei altro, sono incinta e adesso devi fare il tuo dovere, e il nome lo scelgo io”.
Disse abbracciandomi e baciandomi facendomi anche provare un gran male al braccio ferito con la stretta.
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Licinio!
Ma, è il nome del nonno…
Quello che vuole sempre cenare alle 18:30.
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“È una lunga storia”.
Mentre eravamo abbracciati Ada ed io, e assieme ai miei compagni festeggiavano lo scampato pericolo, sentimmo arrivare un camion da dietro la curva che dava nella cava dove eravamo.
I camion li avevano solo i tedeschi, se trovavano carburante per farli viaggiare.
E, infatti, non facemmo in tempo a scappare che il camion arrivò.
La sparatoria che ne scaturì vide la morte di metà dei miei compagni e la cattura degli altri.
Ne uccidemmo molti anche noi, ma la consolazione era molto magra.
Persi di vista Ada.
Fummo deportati in un campo di concentramento dopo un viaggio durato giorni su un carro bestiame.
Il campo era in Polonia
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Il bisnonno continua descrivendo situazioni che non possono essere accadute. Persone lasciate morire di stenti, la caccia ai topi per nutrirsi, forni in cui erano bruciati i cadaveri, camere in cui erano uccise persone con gas…
Non possono essere successe queste cose.
Il solito internet mi dovrebbe fornire maggiori informazioni. Ma anche questa volta trovo di tutto, anche chi dice che queste cose non sono mai successe.
Perché il bisnonno dovrebbe mentire nel suo diario?
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Finalmente tornammo a casa. L’Italia aveva perso la guerra. Il fascismo era stato sconfitto. I treni continuavano come prima a fare come potevano.
Ritrovai Adalgisa. Era riuscita a scappare e non l’avevano catturata. Era davvero veloce in bicicletta. Il mio Licinio mi aspettava con lei.
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Andai da mamma per farle vedere il quaderno che avevo ritrovato in cantina in mezzo ai tanti fumetti del nonno.
“Mamma, guarda cosa ho trovato in cantina”.
La mamma stava per sgridarmi, ma si fermò quando vide la copertina del quaderno.
Lo prese e lo accarezzò, come se avesse ritrovato un vecchio amico.
“Va bene, Alessandro, adesso parliamo dei bisnonni Antonio e Adalgisa.

sabato 17 marzo 2018

Adelina

Ero davanti alla Rocca di Castel San Pietro Terme, un po’ uno dei simboli del comune, o almeno così me lo aveva venduta un anziano signore, dopo pochi minuti in cui mi ero fermata a valutare il lavoro che avrei dovuto affrontare a breve.
L’umarell, in anticipo su tutti, era già presente prima ancora che iniziassero i lavori. Complimenti. Avrei avuto molti occhi addosso, durante questo restauro.
“Ricordo quando da bambino ci giocavamo dentro simulando un assalto al castello” pronunciò in un dialetto che capivo bene.
“E poi la più bella dava il bacio al suo re…”. 
Lo guardavo parlare mentre ammirava la torre. Il suo sguardo era perso nel ricordo della bella ragazza che, forse, le aveva regalato un bacio, oppure no, ma mi piaceva pensare che gli fosse andata bene.
La rocca medioevale era lì che aspettava da molti anni. Dall’aspetto appariva ancor più vecchia e abbandonata da com’era ricoperta di sterpi e di rovi.
E proprio a me sarebbe toccato metterci mano, da restauratrice.
Una torre medioevale è sempre affascinante, a parer mio. Non sai mai cosa ci puoi trovare.
Di lì a una settimana il cantiere era insediato. Una bella recinzione, con le graziose reti arancioni a fori grandi, aiutava i diversi umarell che si presentavano per verificare i lavori.
Anche l’amico iniziale tornò a farsi vedere. Si chiamava Gino. Gli offrii un caffè perché mi era simpatico.
E poi comunque avevo poco da fare all’inizio. Erano in azione robusti giardinieri che dovevano liberare la struttura da tutta la giungla di piante che ricoprivano la struttura in muratura.
Mentre cercavamo l’attenzione della barista, intenta a scrivere qualcosa sul cellulare, ci mettemmo a parlare del più e del meno, almeno così sembrava all’inizio.
“Deve sapere che in quella torre ci siamo anche nascosti durante la guerra” Mi parlava in un italiano lento con rispetto della mia condizione di non-parlante il dialetto.
“A causa dei tedeschi?” domandai con una richiesta, in effetti, scontata.
Non ci fece caso.
“No, a causa degli italiani, degli italiani fascisti”.
Fece una pausa mentre finalmente ordinavo i caffè.
La confusione al bar era notevole e gli chiesi se voleva sedersi. Gli avrei portato il caffè.
Mi andò ad aspettare al tavolino più nascosto e riservato. Con quaranta anni in meno, avrei pensato che ci stesse provando.
“Con alcuni di loro avevamo giocato nella torre, da bambini”. 
“Ma la principessa non li aveva accontentati” rise malinconico. 
Ero contenta che fosse stato lui il destinatario del bacio.
“Arturo si sarebbe ricordato del torto…”
Ci interruppe uno dei giardinieri che arrivò tutto trafelato al bar.
“Signora…deve venire subito al cantiere…”
“Che cosa è successo?” mentre mi alzavo e andavo via dimenticando anche di pagare.
Guardai il mio amico che era rimasto con le parole sulla punta della lingua, anche se lo sguardo era triste e sconsolato.
Andammo al cantiere. Gli umarell, con il loro sesto senso da cantiere, si erano accorti che qualcosa non andava, o forse qualcuno sapeva cosa aspettarsi?
Gli operai, dopo aver diradato l’ingresso della rocca, avevano iniziato ad addentrarsi fino a trovare un’acacia molto sviluppata, che si era insinuata tra i mattoni della struttura.
Per toglierla “abbiamo dovuto tirare e questo ha provocato un piccolo crollo del muro” mi disse il capo giardiniere.
“Dietro abbiamo trovato questo”. E mi mostrò uno scheletro con ancora addosso brandelli di vestiti. Un uomo, vista la stazza, con vestiti neri.
Mi girai indietro come sentendone la presenza e vidi che dietro le reti arancioni c’era Gino che mi fissava. Vicino a lui un amico, se possibile, ancora più vecchio e altri due di dietro…
Sembravano un gruppo affiatato di un qualche club. 
Guardandoli meglio me li cominciai a immaginare con tanti anni di meno.
Quando erano poco più che adolescenti, che poi allora ad avere sedici anni si era già uomini. 
“Signora, che facciamo, dobbiamo avvisare qualcuno?”
Farfugliai qualcosa…c’era da avvisare i Carabinieri, fermare il cantiere e non sapevo neanche io cos’altro fare.
Soprattutto volevo parlare con Gino e i suoi amici.
Presi tempo.
“Adesso andate tutti a casa, per il momento il cantiere si ferma”.
Gli operai andarono via e chiusero l’accesso al cantiere.
Io sapevo di dover andare dalle forze dell’ordine ma qualcosa mi diceva di non farlo.
Gino mi aspettava con tutta la sua compagnia.
Compagnia “Amici della torre” si chiamava allora.
Anche sul finire della guerra si facevano chiamare così. Poco più che ragazzini avevano cominciato quasi per scherzo a fare i “partigiani”.
In realtà solo piccole azioni di disturbo, quasi delle ragazzate, sennonché una volta successe che mettendo un filo di acciaio teso tra due alberi, mozzarono la testa a un tedesco che arrivava in motocicletta. 
Il problema era che dietro il decapitato stava scortando un’auto con un generale del comando tedesco accompagnato da un gerarca fascista di Bologna.
Trovarsi con la testa in braccio, non piacque al tedesco che ordinò un immediato rastrellamento per trovare dieci italiani da fucilare.
E diede molto impulso ai fascisti del luogo di poter fare quello che volevano, semmai avessero avuto qualche indugio prima.
E qualcuno si ricordò del bacio mancato alla vecchia torre.
“Trascinarono la nostra principessa alla torre perché Arturo voleva il bacio che non aveva avuto” mi raccontò Gino.
Noi intanto eravamo scappati in campagna a Mordano, da un amico di mio padre.
“Ci raccontarono che Adelina urlava che non voleva e alla fine qualcuno chiamò il prete che si prese pure le botte poi, ma riuscì a far scappare Adelina”.
“Quando ne fui informato, tornai facendo in maniera che lo sapesse Arturo”.
“Mi aspettava, insieme con altri tre, alla torre”. 
“Neanche io andai solo, gli altri che vedi ancora adesso insieme con me, erano nascosti”.
“Adelina e tutto il paese sapevano”.
“I fascisti facevano finta di niente, erano contenti che i loro giovani agissero in quella maniera”.
“Insomma venimmo alle mani, e nella lotta Arturo cadde sbattendo la testa. Morto”.
“I suoi amici si presero una gran paura e scapparono via”.
“Noi rimanemmo lì, interdetti su cosa fare”.
“La torre era già allora non molto curata, e ci venne l’idea di far in maniera che il cadavere rimanesse nascosto per sempre”.
“Gli costruimmo intorno una bara di mattoni, sigillando tutto e sperando in Dio”.
“Dio o il caso il giorno dopo ci aiutò.  Un errato bombardamento, fece cadere delle bombe intorno alla torre facendone crollare una parte. Una bomba rimase inesplosa davanti all’ingresso vietandone il passaggio a chiunque”.
“Passarono i giorni e le settimane, poi arrivarono i polacchi che liberarono Castello”.
“E tra le tante questioni che avevano i fascisti, tra riciclarsi e liberarsi dei fardelli del ventennio, la faccenda della morte di Arturo fu dimenticata”.
Facemmo una lunga pausa.
La barista ci venne a chiedere cosa volessimo.
Non la considerammo.
“Adelina...?” chiesi io.
“Dopo aver vissuto assieme tanti anni, adesso riposa al cimitero di Castello”.
Mi guardavano tutti. Pendevano dalle mie labbra. Speravano in quello che non è sperabile.
Da una persona sensata come mi reputavo.
“Ok, siamo stati sfortunati con questo cantiere” dissi.
“Abbiamo trovato una bomba inesplosa nel cantiere e nessuno può entrarvi” continuai senza pensarci.
Gino e gli altri mi abbracciarono tra lo stupore della cameriera inorridita.
“E stanotte tutti al cantiere che dobbiamo togliere ‘la bomba’”.

domenica 2 luglio 2017

Ricordi Farciti

Ricordi Farciti

versione scritta e servita nelle 5 ore del 22 aprile 2017
del concorso  "Premio Letterario Città di Castel San Pietro Terme"


La piazza era come la ricordavo.
Era da tanto che non mi recavo più in quel comune in cui avevo lavorato tanti anni prima.
Mi erano rimasti solo i buoni ricordi.
Abbiamo un fantastico meccanismo del nostro cervello, che ci fa dimenticare le preoccupazioni e le angosce passate, oggi dissolte e derubricate in esperienze di vita.
Poi ci sono le persone che hai conosciuto, alcune speciali e altre di cui hai dimenticato perfino l’esistenza.
Si dice sempre che “ci rivedremo”, “verrò a trovarvi”…, ma poi la vita ci porta verso altri lavori, altri colleghi e verso altre situazioni, mentre il tempo passa, e quando ti rendi conto che sono passati dieci anni, capisci che è assurdo andare a trovare persone che hai dimenticato, come loro hanno dimenticato te.
Corri solo il rischio che capita a certi pensionati che tornano a trovarti sul luogo di lavoro, commoventi nel cercare di interpretare l’ormai perduto ruolo che avevano scambiato, per l’agognata ma noiosa, vita da pensionati.
Comunque ero tornato per un concorso di scrittura in diretta. Armato di pc e mouse e per cinque ore scrivere un racconto da zero, parlando del paese che ci ospitava.

sabato 23 gennaio 2016

Tempi

Tempi

1938
Giuseppe Rossi guardava fuori dalla finestra della cucina di casa sua.
Impaurito da quello che succedeva in piazza. In"Piazza Impero Italiano d'Etiopia”.
I suoi genitori erano dietro di lui e guardavano atterriti il pestaggio che stava avvenendo poco lontano da loro.
A 8 anni certe cose non si capivano, e certo non poteva capire quello che stava accadendo, ma comprendeva, comprendeva bene che stavano facendo molto male a quel ragazzo di vent'anni.
Il ragazzo, a terra subiva pugni, calci, sputi. Quegli uomini vestiti di nero urlavano, sbraitavano di tutto. Come scimmie il branco alimentava la propria rabbia. Gli dimostravano tutto il loro disprezzo e lo facevano capire anche a tutte le brave persone che guardavano. Alcune imbarazzate, altre divertite, altre...indifferenti.
I genitori commentarono con una parola, qualcosa che il piccolo Giuseppe non aveva mai sentito. Sussurravano ”...invertito”, o qualcosa del genere.
L'aggressione finì solo quando arrivò la mamma del ragazzo. Si mise in mezzo prendendosi anche lei qualche ultimo schiaffo.
Ma tanto bastò per farli smettere "...ti lasciamo alla mammina, ma non ti fare più vedere in giro a disturbare i veri uomini... ti lasciamo con la mammina..." il loro linguaggio era povero, e giù risate.
Giuseppe di quell'età avrebbe ricordato poco di più di quel solo episodio. Il piccolo paese dove abitavano era al centro di niente, nel bene ma sicuramente nel male.
E di “Invertito” aveva capito che non era una buona cosa, anche se ancora non sapeva cosa volesse dire.
Il ricordo dei genitori, che ne parlavano facendosi il segno della croce, gli rimase per molto tempo.

lunedì 1 giugno 2015

INVERNO

AVVISO IMPORTANTE
Vista il tema affrontato, la lettura del racconto è sconsigliata a minorenni o a persone facilmente impressionabili.

Menzione speciale Concorso internazionale per racconti brevi Premio letterario “La Valle delle Storie”

INVERNO

Stella si trascinava sulle stanche gambe. La neve le arrivava fino al ginocchio e, pur essendo passati pochi minuti dalla sua fuga dal capanno in mezzo al bosco, era faticoso proseguire. I suoi aguzzini, stanchi, ubriachi d’alcool e di altre sostanze, erano crollati a terra senza far caso al lucchetto, aperto, nella catena di Stella. L’avevano legata in fretta e male. La porta d'accesso non era chiusa.
Non avrebbe voluto andarsene da sola. Sarebbe voluta scappare con le altre due ragazze. Ma i loro lucchetti non erano aperti. Le aveva lasciate dicendole che sarebbe tornata per liberarle.

Tutto era iniziato sei mesi prima. Aveva partecipato ad un concorso di bellezza nella sua Albania. I  vent’anni e le forme giuste avevano vinto. Gli organizzatori le avevano proposto una tournée in Italia.
In patria il lavoro non c'era e le avevano promesso che in Italia avrebbe trovato “sicuramente” qualcosa d’interessante. Conoscevano persone che cercavano ragazze giovani e di bell’aspetto per presentazioni di prodotti, per fare da hostess in fiere e cose del genere. Stella conosceva anche l’italiano e questo sarebbe servito.
“magari ti trovi un bel ragazzo italiano che ti sposa” le avevano buttato lì.
E di ragazzi italiani ne aveva trovato tanti. Per lo più erano ex-ragazzi molto cresciuti. Lei piaceva molto agli uomini e il lavoro in Italia non le sarebbe mai mancato.

mercoledì 25 febbraio 2015

Quello che le donne non dicono.

Questo il racconto che verrà letto il 2 marzo a Imola.


LA PALESTRA

 
Sabato pomeriggio in palestra. Invece dello shopping e meglio delle pulizie di casa… . La mia amica Maria mi aveva convinto ad iscrivermi. Giusto per fare un po’ di movimento. Mi aveva detto. Ma perché andarci così tardi. E fare tutto di corsa perché la palestra stava per chiudere.

Era sempre stata lei a proporre, ad organizzare. Amiche da sempre anche per quello. Io quella tranquilla e pacata, a volte anche noiosa. Lei sempre in accelerazione sulla vita. Mi faceva comunque bene vederla adesso che ero anche sola.

andiamo in palestra, facciamo un po’ di moto che ci fa bene … e ci tira su l’umore”.

D’accordo sul moto, ma essere le più anziane presenti non mi alzava molto il morale.

Forse un tempo eravamo state desiderate e desiderabili ? 
E chi se lo ricorda più. Comunque quel tempo era passato, almeno per me.
Non fare la musona, dai un’occhiatina a quei bei ragazzi”
Ma dai, potrebbero essere nostri figli” ribattevo io, vergognandomi di averci comunque dato una sbirciata anche se solo per poter rispondere all’amica.
E poi il movimento fisico aumenta la produzione di endorfine” continuava sulla scia salutista Maria. Eravamo alla fine dei venti minuti di bicicletta e parlava, parlava, in continuazione. Non so come facesse. Tra la stanchezza e le sue parole il risultato fu di farmi estraniare. Di farmi perdere in una trance di flashback. Come quando… il ricordo dei tempi passati ritornava prepotente. Nel mio avere vent’anni c’era stato tutto e niente. Allora non c’erano queste palestre. Noi donne stavamo di più in casa. E davamo retta ai consigli della mamma.

Patrizia… Patrizia” sentii urlare Maria.
“… cosa c’è?” risposi con voce impastata, come se mi avesse appena svegliato.
ti eri distratta guardando i ragazzi eh ?” mi disse con lo stesso tono che avrebbe avuto scoprendomi con le dita nella marmellata.

mmm…” farfugliai qualcosa senza senso per perdere tempo, in effetti mi resi conto di essermi incantata a fissare i due ragazzi rimasti. Ridacchiavano tra loro guardandomi. Ritenevo che si stessero burlando di me.

Mi girai verso la mia amica “no, no, tutto questo movimento per farci apparire giovani … mi ha fatto ripensare a quando avevamo l’età di quei ragazzi. Mi ero incantata mentre pensavo alla nostra gioventù così diversa”

La sera non potevamo uscire, la messa alla domenica come unico momento di vera socializzazione con i nostri sguardi che si incrociavano con quelli dei ragazzi.”
e poi il prete che ci riprendeva dicendoci che le signorine non devono fare le vanesie!!!” urlò Maria
vanesie !!! Sta parola non la sentivo da quarant’anni, da dove l’hai tirata fuori Maria?”
Don Carlo mi ha cresciuto con le sue reprimende. A proposito ti ricordi di quel cappellano giovane e carino che ci mangiavamo con gli occhi ???”

certo, ricordo anche che andò via senza salutare, così, all’improvviso mentre avrebbe dovuto rimanere da noi …” non riuscii a proseguire. Un’improvvisa associazione mentale mi balenò in mente.

Guardai la mia amica. Eravamo ormai scese dalle biciclette e ci eravamo accomodate sudate ed ansimanti, sulla panca per gli addominali. Mi fissava senza dire nulla con quel suo fare furbetto che aveva sempre avuto, da gatto che si è appena mangiato il topo.

Non puoi aver fatto quello che penso che tu abbia fatto” dissi con poca convinzione.

Il cappellano con lo zio Vescovo, avviato alla carriera ecclesiastica, proprio lui. Il parroco ci sorprese nella sua camera. Non era ancora pronto a rinunciare alla carne. Anzi direi che gli piaceva proprio tanto…” rimarcò soddisfatta Maria.

ma … come hai potuto farlo, e non dirmelo mai tutti questi anni ?”
anche io avevo una cotta per quel ragazzo, ma non mi sarei permessa …, come hai potuto ? era quasi un prete !!!”
cara Patrizia, ti facevi troppi problemi allora come adesso. Io volevo godermi la giovinezza e me la sono goduta”
quel cappellano piaceva a tutte ma solo io sono andata in camera sua, voi avevate paura di quello che avrebbero detto mammina e la gente”
rimani vergine fino al matrimonio, concediti solo la prima notte di nozze, e solo per fare figli, ma quante ce ne dicevano allora ?”

Guardavo la mia amica e non la riconoscevo più mentre lei imperterrita andava avanti.

perché, mi sono sempre domandata, perché gli uomini potevano fare quello che volevano, mentre noi povere verginelle dovevamo aspettare il principe azzurro e lunghi e pallosi fidanzamenti mano nella mano ?”

Mentre ascoltavo il Maria pensiero, pensavo, inebetita, a tutti i problemi che mi ero fatta allora. Ero stata nel giusto ad aspettare, non cadere in tentazione o aveva fatto bene la mia amica a godersela ?

tu hai aspettato il principe azzurro e alla fine ti sei dovuta accontentare per non rimanere sola”
ma cosa dici” stava esagerando e non ne capivo il motivo, mi alzai per andarmene ma lei mi trattenne.
perché, non è vero? adesso dov’è il tuo uomo?”
Era un colpo basso, ma colpiva nel segno. Mi ero separata da una decina di anni scoprendo che andava a puttane, spendendo tutti i nostri soldi.
hai aspettato il tuo uomo ideale per scoprire che non lo era poi così tanto”

Non seppi ribattere. Sapeva che questo pensiero mi aveva accompagnato tutta la vita. Aspettare l’uomo ideale lasciando perdere storie prima e anche dopo al matrimonio. Tutto perché credevo che fosse giusto fare così. Non ne so neanche davvero il motivo. Forse solo perché mi era stato detto che si doveva fare in questo modo. Nonostante che mio marito non fosse mai a casa e ci provasse con tutte.

non fare quella faccia triste, la vita non è ancora finita…”
La guardai, aveva nuovamente il viso da gatto, ma stavolta prima di mangiarsi il topo.
tu pensavi che fossimo venute in palestra all’ora della chiusura per fare ginnastica…”

Mi sembrò di scorgere un gesto, lieve, con gli occhi, rivolto ai due ragazzi seduti all’altro lato della palestra.

Ma cosa pensavo, scacciai il concetto “cosa vuoi dire?” le chiesi mentre mi aumentavano i battiti del cuore ma non per la fatica.

hai mai fatto la sauna?” e stavolta fece davvero un esplicito richiamo con la mano verso i ragazzi, che infatti si mossero subito verso di noi.

si, ma che cosa vuoi dire, che cosa stai facendo?” mentre guardavo i due ragazzi palestrati che ci si avvicinavano.

Facevo finta di non capire quello che avevo inteso benissimo.
ancora non ci sei arrivata ?” disse infine Maria.
andiamo ragazzi, la mia amica è tanto che non fa una sauna e ne ha un gran bisogno …”.